Carlos German Belli Peru spagnolo -
Carlos Germàn Belli vive a Lima, dov’è nato nel 1927 da famiglia di origine italiana. Il nonno, emigrato in Perù, fu archeologo appassionato e fondatore a Ica del museo che porta il suo nome. Belli trascorre la giovinezza in Perù; in seguito alla morte del padre, già console ad Amsterdam, è costretto ad interrompere gli studi e ad accettare un posto di copista presso il Senato, lavoro che conserverà per oltre vent’anni così da provvedere alla famiglia e al fratello.
Nel 1956 visita Spagna, Italia e Francia venendo a contatto e approfondendo la sua conoscenza dei poeti surrealisti.
Nel 1958 esce la prima raccolta di poesie, "Poemas", seguita da "Dentro e Fuera" (1960), "¡Oh Hada Cibernética!" (1962), "El pie sobre el cuello" (1964), "Por el monte abajo" (1966), tutte pubblicate dall’elegante tipografia dell’amico poeta Javier Sologuren nella collana “La Rama Florida”. All’attività di poeta affianca anche la traduzione di alcuni testi di André Breton, Paul Eluard, René Clair, Benjamin Péret, Henri Michaux e altri ancora.
La notorietà arriva nel 1967 con la pubblicazione presso la Casa Editrice Alfa di Montevideo de "El pie sobre el cuello", che riunisce tutti i versi scritti nelle precedenti raccolte. La critica comincia a interessarsi della sua opera grazie anche a un brillante saggio di Javier Sologuren.
Invitato negli Stati Uniti dall’Università dello Iowa, Belli intensifica la sua collaborazione con il maggiore e più antico quotidiano di Lima e vede le sue poesie ospitate in collane affermate. Nel 1970 esce "Sextina y otros poemas". nel 1971 ripubblica "¡Oh Hada Cibernética!" che include una nuova raccolta, "El libro de los nones". Nel 1980 diventa Dottore in Lettere con una tesi sulla poesia di Carlos Oquendo de Amat e due anni dopo viene ammesso all’Academia Peruana de la Lengua; la prestiogiosa Casa Editrice messicana Editorial Premia pubblica le sue "Canciones y otros poemas". La prima traduzione italiana dei suoi versi è del 1983, con l’uscita dell’antologia "O Fata Cibernetica!"
Nel 1985 l’Istituto di Cooperazione Iberoamericano pubblica Boda de la pluma y la letra, una antologia curata dall’autore.
Sempre a Madrid esce il primo libro dedicato alla poesia di Belli: "Tradicion y modernidad en la poesia de C.G. Belli", a cura di Nick Hill. Partecipa al Festival Mondiale di Poesia Valkimi di Nuova Delhi, In italia viene invitato a leggere le sue opere in numerose città, presentato da Roberto Paoli.
Nel 1986 esce "El buen mudar" e in Perù riceve il Premio de Fomento a la Cultura. Nello stesso anno partecipa a Firenze al IX congresso mondiale di Poesia e pubblica "Mas que señora humana".
Nel 1987 appare a Madrid il secondo saggio dedicato alla poesia di Belli, "Lenguaje en conflicto: la poesia di C.G. Belli", di Mario Canepa. Vince nel 1988, per la seconda volta, il premio della Fondazione J.S. Guggenheim e vengono dati alla stampe a Madrid "En el restante tiempo terrenal" e, a Lima, "Antologia Personal".
Ad Hannover esce "Carlos Germàn Belli. Antologia Personal" con un’introduzione di Mario Vargas Llosa.
Nel 1989 partecipa a Pescara al congresso “D’Annunzio e i poeti di oggi” e nel 1992 viene pubblicato a Trujillo il suo nuovo libro Acción de gracias.
Nel 1995, con presentazione di Mario Vargas Llosa, viene pubblicato in Italia, dalle Edizioni Oivares, "Un giorno d’amore".
Nel 2000 ha preso parte alla quinta edizione de "Lo spirito dei luoghi".
Bibliography
* Poemas (1958)
* Dentro & fuera (1960)
* Oh Hada Cibernética (1961)
* El pie sobre el cuello. Obra reunida (1967)
* Sextinas y otros poemas (1970)
* En alabanza al bolo alimenticio (1979)
* Boda de pluma y letra (1985)
* Más que señora humana (1986)
* Los talleres del tiempo (1992)
* Salve, spes! (2000)
* En las hospitalarias estrofas (2001)
* La miscelánea íntima (2003)
* El alternado paso de los hados (2006)
* Sextinas villanela y baladas (2007).
Carlos Germán Belli
Una poesia per tempi difficiliNon esiste, nella poesia contemporanea in lingua spagnola, un poeta che, come Carlos Germán Belli, abbia costruito la sua opera con tanto rigore e coerenza e tuttavia con tanta facilità.
La sua poesia è difficile, melodrammatica, di un narcisismo nero, impregnata di uno strano umore, caustica e coltissima. È fatta di fusioni inimmaginabili: la metrica del Siglo de Oro e il gergo delle strade di Lima; la sragionevolezza e il lusso del surrealismo e la sordidezza della vita della classe media di una società del Terzo Mondo; la nostalgia e il sogno di un’esistenza eccessiva che si sbriciola scontrandosi quotidianamente con la smentita dell’esperienza e che ostinatamente, si nrifà come opera del desiderio e dell’immaginazione per spezzarsi un’altra volta, al primo scontro con il fatidico principio della realtà.
È una poesia per tempi difficili, come i nostri, per società in cui la vita dello spirito e la cultura sembrano agonizzare, senza grandezza, fra l’indifferenza generale. Nessuno sperimenta questa crisi più duramente dei poeti. Sono passati i tempi della poesia fatta di squilli di tromba e cortigianerie e anche quelli della poesia della rivoluzione e dell’eroismo, quelli del sospiro amoroso e pure quelli della pirotecnica verbale e del gioco umoristico. Che cosa rimane allora? Una costellazione di fuochi fatui che scompaiono ancor prima di iniziare a delinearsi.
In questo panorama desolato, uno dei pochi sopravvissuti è quest’opera grottesca e geniale. Volutamente stonato, Carlos Germán Belli canta i tempi andati, le sfortune, gene di autocommiserazione, lancia geroglifici e sarcasmi, scolpisce indovinelli e allegorie di una bolgia infernale che, come le macchine di Tanguely o i famosi monti del proverbio, fermano ratti, biglie di vetro e, a volte, neppure quello.
È una poesia che dobbiamo leggere. Accettando di lasciarci maltrattare lungo i dirupi lavorati, perdendoci docilmente nelle sue tortuose metafore, decifrando con pazienza e amore il senso delle sue selvatiche allegorie. In queste fosche retoriche è ritratta la nostra epoca e fustigata la nostra decadenza come in poche altre opere artistiche contemporanee. Nessuno ha saputo incarnare con maggior bizzarra originalità di Carlos Germán Belli il destino del poeta in questo momento oscuro in cui sembra giunta per la poesia l’ora della tomba. Ma, se è capace di produrre nei suoi rantoli un simile canto del cigno, nonostante gli innumerevoli sintomi, forse la poesia non è mortale.
Mario Vargas Llosa_____________________
ENTREVISTASCarlos Germán Belli y el reto estilístico de la poesiaMiguel Ángel Zapata: ¿Cómo fueron esos primeros encuentros con las palabras, su unión total en los poemas, y esa posterior evolución hacia un lenguaje más barroco y apegado a las formas del siglo XVII, con un toque coloquial limeño?
Carlos Germán Belli: Voy entonces a remontarme a la prehistoria mía, a los comienzos, o sea, al momento liminar, que me aventuro a llamar quehacer literario. En realidad, me parece que las cosas que hago, que he hecho a lo largo de mi vida, son resultado, secuela, consecuencia, de una limitación, de una precariedad, de un estado de inseguridad. Esta situación de inseguridad se presentó en mi adolescencia, en el momento en que yo trato de registrar mis primeras experiencias amorosas por ejemplo, y luego comienzo entonces a escribir. Ahora bien, la inseguridad evidentemente se me presenta según recuerdo, en la indecisión de escribir o no en ese momento, te hablo de cuando yo tenía 18 o 20 años. La otra situación negativa es la limitación, la limitación como usuario del idioma que hablo, que es el español. Pues bien, por un lado la inseguridad existencial, y por otro lado la limitación idiomática como hablante; todo ello converge que yo monte una suerte de estrategia, vital, literaria: al final de cuentas esta estrategia consistió en una suerte de lecturas sistemáticas de autores del pasado, particularmente de los siglos de oro de España (XVI-XVII) en primer término, luego voy ampliando las lecturas hacia otras literaturas, como Arnaut Daniel, poeta provenzal, creador de la sextina, para finalmente sumergirme en el cancionero de Petrarca. Este sistema de lectura está acompañado de la praxis, o sea, de la exploración estilística. Yo creo que eso es en suma la motivación, los primeros encuentros, más o menos de todo esto.
MAZ: Y a la hora de sentarse a escribir, ¿pluma en mano, o máquina en mano? ~ las ideas.
CGB: Esta pregunta va al grano ya. En realidad siempre en la máquina de escribir, es decir, una escritura dactilografiada. Con respecto a las ideas, creo que todos los caminos conducen a Roma, puede ser que a partir del diccionario, o a partir de una palabra que escucho o de una frase que voy hilvanando.
MAZ: Explícanos cómo escribiste el poema "Esto que me dicto", específicamente en el uso de la letra "J", ¿uso proverbial o mera exploración?
CGB: Ah, ese poema, lo leo ahora, la primera estrofa: "Esto que me dicto, aquello que vivo / unas letras lindas, unos hechos lindos / por una vez fueran y no feas cosas / aunque solamente / átomos de J, mínimos instantes / un poco de lo uno o de lo otro. Amen." Este poema es motivado ante todo según recuerdo por la exploración a nivel de las estrofas, de un lado, y a nivel del metro, la época en que yo trataba de cultivar otros metros. Los metros que siempre yo he incidido son los heptasílabos, pero acá en esta composición pequeña empleo dodecasílabos, o sea, con dos hemistiquios de seis sílabas cada uno.
Entonces, el motivo esencial que impulsa al poema es de carácter de exploración estilística. Además, veo que la estrofa es de seis versos, con el cuarto verso de seis sílabas; esta estrofa según recuerdo, me parece (ya que es un poema antiguo), creo que la aprendí de poemas de Malert, poeta francés clásico. Creo que es en consecuencia una experimentación con metros. En cuanto a la letra jota: átomos de "j", ni una jota vale, no vale una jota, es en tal sentido.
MAZ: Y los títulos de tus poemas, ¿primero el poema luego el titulo o viceversa? Y no piensas tampoco en el lector, ¿no?
CGB: En realidad no pienso en el lector, pero probablemente de modo tácito. Yo quiero que el poema sea claro pero en realidad no pienso en el lector. Me explico: el poema sale, se cuaja en el blanco de la página, fuego viene el título, yo quisiera, quiero que el nombre del poema sea una especie de guía para el lector, que aclare.
MAZ: Hay escritores que piensan que las entrevistas no son necesarias, porque dicen que todo está ya escrito en el papel, en el poema, y para qué más preguntas, ¿Qué piensas?
CGB: En realidad las entrevistas, las críticas, al final de cuentas, aportan una ayuda, una luz al autor, porque son momentos de reflexión que hace uno en voz alta, o bien leyendo una crítica sobre el trabajo de uno, y de paso te digo que una crítica negativa, en mi caso, trato de no leerla porque me afecta.
MAZ: Háblanos de esas críticas negativas.
CGB: Las críticas negativas que he recibido han sido hechas por escrito por escritores o periodistas idóneos que expresan una opinión auténtica, sincera. En mis comienzos cuando publiqué un librito de vanguardia, y en mi etapa experimental otro bajo el signo de la modernidad; en esa época hablaron mal de los dos libros. Esa crítica negativa de los textos modernos que yo hacía, experimentales, me llevó a releer a los poetas de los siglos de oro, diría que en suma fue favorable para mí. Estas críticas, en consecuencia fueron para mí positivas, porque leí con rabia, con furia, con denuedo a los poetas de la gran tradición hispánica. Posteriormente las otras críticas negativas que he ido cosechando a lo largo del tiempo ya no las leo, pues como dije, me afectan demasiado.
MAZ: Tu poesía ha recibido, recibió mejores comentarios desde el extranjero, y hasta eras más conocido que en el Perú.
CGB: Es que tengo más amigos afuera (sonrisas); a pesar de que mis buenos amigos están acá también, pero tengo amigos del alma que están afuera, amigos cordiales, afectuosos que me ayudan, recomendándome a congresos, o haciendo notas generosas como Roberto Paoli, profesor de Florencia, Enrique Lihn, de mi generación con quien cultivo una amistad fraterna a pesar de que nos hemos visto muy pocas veces; José Kozer en Nueva York (Forest Hills), en cuya casa cada vez que voy me siento muy complacido, en ese orden estricto del ambiente familiar que para mí es un paradigma; o el afecto de Pedro Lastra con quien profeso una amistad antigua, y que cada vez que nos vemos, en realidad para mí son hitos, hitos en el afecto, en mi ampliación personal de conocimientos literarios.
MAZ: ¿Qué opinas de los comentarios sobre tu poética que sólo exploran el aspecto social entre comillas?
CGB: En realidad, si en este momento me topo con una crítica, con una exploración en tal sentido, a mí me cae como un baldazo de agua fría. Reconozco evidentemente que en algunos textos míos hay la resonancia social, producto de una experiencia vital muy específica, pero creo yo que ésa no es toda la visión de mi itinerario vital literario, eso no es todo por supuesto. Me agradan cuando las aproximaciones críticas son globales, totales, que ponen énfasis en el trabajo a nivel de la palabra, o bien en las inquietudes de los signos de vanguardia, o hacia poetas de la antigüedad, y cuando se mencionan todas las constantes temáticas, no solamente lo social, en ese sentido creo yo que es una visión unilateral.
MAZ: ¿Eso tal vez podría ser una de las deficiencias de la crítica poética en nuestro idioma?
CGB: En las últimas direcciones de la crítica podemos ver un rigor, un mayor rigor cuando se asume técnicas cada vez más sofisticadas, más complejas, pero que llevan a veces a situaciones de difícil comprensión para el lector o para el estudiante o para el mismo autor estudiado. Consecuentemente, creo que se va a un callejón sin salida. Pero tampoco podemos mirar todo de una forma tan pesimista, las nuevas direcciones tienen que enriquecer de alguna manera el enfoque crítico. No podríamos prever lo que pudiera ocurrir en el campo crítico en diez o quince años. No creo que se vaya a aumentar la oscuridad del enfoque, tiene que buscarse nuevos horizontes.
MAZ: Tu generación, ¿los poetas puros, los impuros?
CGB: Como bien sabes, yo pertenezco a la hornada del 50, del medio del siglo. Esta hornada fue dividida inicialmente en 2 corrientes: la corriente de los poetas puros, y los bajo el compromiso social, una dicotomía que suena ya como de museo, pero en esa época era muy notoria, estaba allí en medio de nosotros. Precisamente hace algunos días me preguntaron que dónde yo me sentía más próximo; me siento más próximo, respondí, a los poetas puros, pese a toda esa carga social que quieren algunos críticos rastrear siempre. Me siento más a gusto con ellos, a nivel también inclusive personal. Soy muy amigo como bien sabes de Javier Sologuren, en cuanto a aficiones y preocupaciones.
MAZ: Entonces, ¿qué es un poeta puro? La poesía, ¿no es una, indivisible?
CGB: Una buena pregunta. Qué es un poeta puro? Creo que están demás estos adjetivos de puro y social. La adjetivización debe ser por afanes didácticos, creo además que es una excrescencia verbal aplicar en este caso preciso, de poeta puro y social. Para mí en el caso de la poesía peruana el poeta es Eguren, y lo siento como un paradigma, como un modelo imposible de seguir, al final de cuentas el poeta es Eguren para mí.
Los poemas, las troquelaciones: el aliento del pasado
MAZ: Algunos poetas contemporáneos conservan el cuerpo clásico en sus poemas, pero los estilos han cambiado, la temática, la voz poética se refunde entre chilenismos por ejemplo (Enrique Lihn, Oscar Hahn), entonces los americanos estamos enriqueciendo el idioma, hasta con trabajos tan viejos pero efectivos como las troquelaciones. ¿Qué me dices al respecto?
CGB: Siempre hay troquelaciones, refundiciones, y estas refundiciones tienen el signo del momento en que se hacen. Recuerdo las refundiciones que hacía Garcilaso con respecto a las canciones de Petrarca o las troquelaciones de Medrano con respecto a Horacio, o las de Darío con relación al parnasismo y simbolismo franceses; este afán de refundir, de troquelar estilos del pasado con experiencias del momento, es una constante, y el resultado es el aporte nuestro.
MAZ- Lecturas enriquecedoras...
CGB: Años atrás leí a poetas como Míchaux, Breton, y luego descubrí un poco tarde a Jorge Guillén, y aunque ya lo admiraba antes, dupliqué mi admiración por él. El blanco de mis lecturas es siempre hacia el pasado, siento que hay una constante. Desde hace algunos años estoy leyendo El Cancionero de Petrarca, el cual me sirve como punto de partida para experimentaciones a nivel de la forma del poema, tan es así que mi libro Canciones y otros poemas es una suerte de homenaje a Petrarca. Yo elijo en este caso una determinada canción del poeta italiano, y a partir de la silueta del poema, de la superficie, hago un calco, entre comillas, de la canción y trato que mi poema tenga igual número de estancias de esa canción de Petrarca, exactamente igual, y el desarrollo de la estrofa, o sea esta secuencia de heptasílabos y endecasílabos tiene que ser igual a la del poema que yo he optado como modelo. Estoy en eso, en ese terreno experimental. 0 bien las sextinas que las descubrí a través de Pound, la sextina Altaforte si no me falla la memoria, y trato de ver qué es la sextina, y descubro que es un poema provenzal acuñado por Arnaut Daniel, entonces hago también sextinas. Posteriormente leo un poema de Theodore Roethke, poeta norteamericano que admiro tanto, el poemita fue escrito de acuerdo a las villanelas francesas, que son composiciones pastoriles del siglo XVI, entonces, trato de imitar este tipo de escritura que es para mí un desafío por lo complicado del lenguaje, de la escritura, sea el caso de la sextina o villanela, sistemas cerrados que me sirven de reto estilístico, al final de cuentas, es el eterno retorno a mis preocupaciones iniciales, son retos estilísticos que los asumo con paciencia y con miras a superar mis carencias, mis debilidades, las que he mencionado antes, y creo que ése es un afán permanente mío, entrar a terrenos muy complejos.
Mudanza de poesía: los viajes, ¿suerte necesaria para encontrar más Imágenes?
MAZ: El poeta tiene que viajar, ¿crees?, considerando que algunos poetas - no todos ( no generalizo) - escribieron sus obras maestras fuera de sus países.
CGB: El poeta puede ser nómade o un viajero imaginario, pongo como ejemplo a Eguren, quien como sabes, jamás salió de Lima, y en el mundo poético de Eguren hay múltiples mundos, referencias a otras poéticas, el viajero imaginario está centrado en su torre de marfil: fíjate que me hubiera gustado ser un viajero imaginario, y lo soy lógicamente durante los períodos largos de mi vida que estoy afincado aquí en Lima, siempre estoy pensando en otras latitudes. Yo creo que observando el itinerario de mi vida, veo que es una mezcla de sedentarismo y de nomadismo: soy sedentario y nómade a la vez. Ahora bien, creo que el signo de los viajes está en mí desde el comienzo, en los umbrales de mi existencia, recuerdo que he estado dos años en Holanda cuando tenía cuatro años hasta los seis, también allí comencé mis estudios en el jardín de la infancia, posteriormente ya en mi edad madura he viajado evidentemente, de joven estuve en Europa como todos los de mi generación, y ya andando el tiempo he tenido la suerte de viajar en múltiples direcciones. Durante estos viajes que he hecho, en realidad casi no escribo poemas, sólo frases, palabras que las voy registrando y que después me sirven de punto de partida, a diferencia de otros poetas que escriben mucho durante los viajes. Ahora debo manifestar para redondear otras inquisiciones tuyas, que suelo escribir con mucha lentitud; corrijo mucho en la mayoría de los casos, tengo uno que otro poema, un puñado que no los he corregido, pero gran parte de los poemas, un noventa por ciento han sido materia de muchas correcciones. Me he convertido en una suerte de cronista, trabajo en un periódico, y cada vez que salgo vuelco estas impresiones en artículos breves para el diario en que trabajo, y estoy muy contento con estas crónicas de viaje en que mezclo lo que veo realmente y lo que cree ver mi fantasía e imaginación: una mezcla de realidad y de quimera. 0 bien remembranzas de lugares donde he estado. Estoy alegre porque despertó la complacencia de los amigos donde trabajo. Por ejemplo en un artículo sobre Amsterdam donde estuve en el mes de octubre del 85, con motivo de visitar a mi hija que estaba allí en esos momentos y regreso al punto de partida, el eterno retorno: a la casa donde viví con mis padres en una época feliz de los míos, la casa estaba intacta, el parque donde solía ir, y todo eso motivó una crónica que me agrada mucho y que seguramente voy a incorporar a mi próximo libro.
MAZ: Publicaciones pendientes, creo que tienes una en Premiá, no?
CGB: Sí, el buen amigo de Fernando, con él tengo un poemario ya hace dos o tres años ya a nivel de composición, y este libro va a salir ahora en Lima Más que señora humana. Estoy trabajando ahora con miras a otra colección que quisiera que incluya versos y prosas, un poco a la manera de Darío en Azul... Las prosas son algunos artículos periodísticos y los poemas son en realidad la continuación, y siempre en esa onda experimental, en ese afán por la forma, por cultivar otros metros, otras composiciones.
MAZ: Nunca terminamos de estar satisfechos, ¿no?
CGB: Es una buena actitud la insatisfacción, lo impulsa a uno a seguir adelante.
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Del buen vivir al buen morir. Carlos Germán BelliUno de los proyectos más riesgosos de la poesía hispanoamericana de las últimas décadas es el del poeta peruano Carlos Germán Belli (1929). Desde sus primeros libros, y sin ningún temor a ser leído erróneamente, Belli ha elaborado un discurso poético inconfundible, que en gran medida se funda en formas y referencias que provienen de la cultura greco-latina y que en la actualidad se encuentran fosilizadas.
Que en plano año 2000 Belli se atreva a publicar un libro con el título de '¡Salve, Spes!', habla por sí solo. Pocos lectores actuales se animarían siquiera a abrir un libro con un título como ése, que suena a folios apolillados y a retórica neoclásica del siglo XVIII. Sin embargo, ahí está el Belli de siempre: sólido, imperturbable, materializando su curiosa estética y completamente inmune al qué dirán.
'¡Salve, Spes!' es un saludo a la esperanza. Esta idea o sentimiento adquiere la figura de una deidad romana a la que se le rinde tributo. Sospecho que el tema algo tiene que ver con el hecho de que Belli haya traspasado la barrera de los setenta años. Lo que el poeta parece percibir al frente suyo, y cada vez más cerca, es la presencia de la muerte. Su esperanza sería entonces una manifestación de fe cristiana en un modo superior de existencia: "Y es ésta la mejor /manera para hacer frente a la Parca, /como que satisfecho /se pase del buen vivir al buen morir". El buen vivir representa un cambio radical con respecto a su poesía anterior. En ella Belli sentía que estaba "empedrado /de millares de carlos resentidos", como consecuencia del "apachurramiento" al que lo sometían los poderosos, y era más bien un desesperanzado. El la séptima sección asistimos a un debate entre un "esperanzado" y un "desesperanzado". El primero es un devoto de Venus, la diosa del amor; el segundo, sin saberlo, termina siendo un cómplice de la muerte.
El nuevo libro de Carlos Germán Belli, publicado por la Pontificia Universidad Católica del Perú, no es una colección de poemas breves, como sus volúmenes precedentes, sino un solo poema largo, regido por el simbólico número 10. Son diez secciones (no creo adecuado llamarlas "cantos") compuestas de diez décimas cada una, es decir, de unidades de diez versos. De esta manera, '¡Salve, Spes!' dialoga con la tradición humanista y particularmente con las diez églogas de Virgilio llamadas "Bucólicas", en las que también hay un elogio a la esperanza.
Uno de los temas bellianos que reaparecen aquí es el de la condición de su hermano Alfonso, paralítico de nacimiento. Ya en algunos textos de 'Oh, hada cibernética' Belli había abordado este difícil tema de una manera digna, conmovedora y exenta de patetismo. Esta vez recurre al mito de los dioscuros Cástor y Pólux, hijos de Zeus y Leda. Entre otras cosas, oh ironía, los legendarios gemelos se destacaron por sus proezas atléticas. Belli realiza una muy original relectura del mito. Pólux es un inválido: "el inmóvil sempiterno" que "está en un mismo sitio resignado /como un árbol que no camina nunca". En cambio Cástor, el dioscuro andante, "pisa fuerte el duro suelo /con las plantas ligeras"; pero lo agobia un sentimiento de culpa, porque siente que le ha robado el movimiento a su propio hermano. La esperanza de Belli reside en que, "en los confines siderales", Pólux y Cástor, vale decir, Alfonso y Carlos, se fundirán con sus padres para formar una unidad y un todo.
Muchos podrían pensar que poetizar hechos biográficos recurriendo a la mitología clásica, y nada menos que en los albores del tercer milenio, es una empresa artificiosa, destinada a la burla y al escarnio. Pero no es así, porque Belli es una especie de Quijote al revés. Ahí donde los otros ven figuras de la mitología, él ve personas reales, y lo dice con un candor y una naturalidad que son muy convincentes.
Hay lecturas que se rigen por la ley del mayor esfuerzo y otras por las del menor esfuerzo, con todas las gradaciones que es posible encontrar entre estos dos polos. No cabe duda de que '¡Salve, Spes!' demanda una extraordinaria, y a veces agobiante, colaboración del lector. Pero la pluralidad de la poesía es vasta, y en ella hay espacio para los más variados proyectos poéticos; y por cierto, para una poesía tan inusual, compleja y exigente como la de Carlos Germán Belli.
Oscar Hahn