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04/04/2011
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Luigi, Sarajevo - Tombeau
Gianluca
Paciucci
Italia
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Gianluca Paciucci
, nato a Rieti nel 1960, vive a Trieste. Laureato in Lettere, è insegnante nelle Scuole medie superiori dal 1985. Come operatore culturale ha lavorato a Rieti (anni Ottanta/Novanta), e poi a Nizza e a Ventimiglia, dove è stato presidente del Circolo “Pier Paolo Pasolini”. Tra il 2002 e il 2006 è stato Lettore con incarichi extra-accademici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia a Sarajevo e presso l’Ambasciata d’Italia in Bosnia Erzegovina. In questa veste è stato tra i creatori degli Incontri internazionali di Poesia di Sarajevo.
Ha curato, per i tipi de Le Balze nel 2005, una guida storico-turistica di Sarajevo e ha pubblicato alcune raccolte di versi quali
Fonte fosca
nel 1990,
Omissioni
nel 2004,
Erose forze d'eros
nel 2009,
Rictus delle verità sociali
nel 2013, collaborando regolarmente con l’”Almanacco Odradek”.
Ha pubblicato articoli in “La Rosa necessaria”, “Guerre&Pace”, “La Battana” e “Panorama d’Istria”.
Nel 2007 per la casa editrice Infinito di Roma ha curato
Sarajevo, mon amour
(intervista a Jovan Divjak) e la raccolta di poesie
La polvere sui guanti del chirurgo
di Senadin Musabegovic.
Insieme a Walter Peruzzi ha pubblicato nel 2011 con gli Editori Riuniti il volume
Svastica verde. Un’antologia del lato oscuro del Va’ pensiero leghista
.
Gianluca Paciucci ha preso parte per Casa della poesia a numerosi eventi, fra cui nel 2007 e nel 2009 agli “Incontri internazionali di poesia di Sarajevo”; il 21 marzo 2008 all'inaugurazione della "casa dei poeti", la casa-alloggio di Casa della poesia e il 13 dicembre alle celebrazioni per i 75 anni di Jack Hirschman.
Dal 2009 inizia un sodalizio artistico con Adriana Giacchetti prendendo parte insieme all’Omaggio per Alfonso Gatto in occasione del Centenario della nascita del poeta salernitano, a “La poesia resistente” nel 2012 a Salerno e a "La poesia resistente" nel 2015 a Baronissi.
Ha realizzato e messo in scena in collaborazione con Adriana Giacchetti il
Compianto dei mendicanti arabi della casba e della piccola Yasmina uccisa dal padre
di Ismaël Aït Djafer, dopo averlo tradotto e curato per la pubblicazione di Multimedia Edizioni / Casa della poesia nel dicembre 2012.
Opere poetiche
Fonte fosca, Rieti, 1990;
Omissioni, Banja Luka, 2004
Erose forze d'eros, 2009
Ha pubblicato articoli in “La Rosa necessaria”, “Guerre&Pace”, “La Battana” e “Panorama d’Istria”.
Collabora con la casa editrice Infinito (Roma) per la quale ha curato "Sarajevo, mon amour" (intervista a Jovan Divjak, 2007) e le poesie di Senadin Musabegovic, "La polvere sui guanti del chirurgo" (2007).
LETTERATURA: “Omissioni” di Gianluca Paciucci, Banja Luka, 2004
18 Giugno 2008
di Francesco Improta
Il libro in questione è dedicato a Luigi Bonalumi, e io credo che commetteremmo, per rimanere in tema, un peccato di omissione, se dimenticassimo l’importanza e il ruolo che Bonalumi ha avuto nella vita culturale italiana e francese e nella vicenda umana ed intellettuale dell’autore del libro e di chi in questo momento sta scrivendo. Luigi è stato un punto di riferimento ed una presenza costante, non solo per noi ma per tutti i giovani intellettuali che hanno operato nell’estremo lembo della Riviera di Ponente dispensando, con la sua semplicità aliena da ogni forma di presunzione e di saccenteria, grani di saggezza e gocce di umanità.
Premesso questo passiamo ad analizzare il libro di poesie di Gianluca Paciucci. Sono versi scritti nel corso degli ultimi tredici anni, disposti in diverse sezioni: Omissioni, che dà il titolo al libro; Quartine; Ordine nuovo; e Storie vere. Le quartine a loro volta si suddividono in: quartine, quartine dal comunismo e ultime quartine. Omissioni e Ordine nuovo sono, invece, precedute rispettivamente da Aldrin e Oh, generazione fortunata che ne costituiscono il preludio e ne offrono, in un certo senso, la chiave di lettura. Infine Storie vere a prima vista sembrano scritte in prosa ma hanno una densità ed una concentrazione poetica per nulla inferiori ai suoi versi più felici. Dodici anni fa recensii la prima raccolta di versi di Gianluca Paciucci Fonte fosca di cui Omissioni rappresenta almeno in parte, per stessa ammissione dell’autore, il naturale, legittimo proseguimento. Del resto se c’è un poeta dall’ispirazione sempre vigile e proteso alla rilevazione del profondo, nella convinzione che l’esercizio poetico sia occasione e strumento di conoscenza e di rinnovamento, questi è proprio Gianluca Paciucci. Dai primi componimenti scritti alla fine degli anni settanta, dalla periferia di Roma (tale almeno appariva allora la cittadina di Rieti) e dalla provincia dell’anima, da cui non riusciva a fuggire, agli ultimi componimenti nati da una Siberia dell’anima (”… un freddo che s’immette nella testa / e spacca i conti fatti…”) c’è un filo rosso, la compresenza di istanze contrapposte: estetica e politica, Venere e Marx, Comunismo e Cristianesimo, passione e ideologia, volendo richiamare il titolo di un’opera di P.P.Pasolini che insieme a Franco Fortini è uno dei modelli poetici e culturali di Paciucci. Come Pasolini Gianluca utilizza spesso la figura retorica della sineciosi ma non per attenuare il significato di una parola con quello di un termine opposto, ma per esprimere un’impossibilità storica e individuale di sanare queste dicotomie. Come Fortini, Paciucci rimane fedele fino in fondo, nonostante le amarezze e le delusioni, al suo discorso civile, etico e politico senza sconti o vacanze mentali. Figura per alcuni versi francescana per la purezza del sentire e dell’impegno, come ha bene evidenziato Danilo Capasso nella bella prefazione al libro, in cui fa riferimento al concerto dei CCCP nel quartiere di Berlino e ai suoi sandali, alla strada che hanno percorso (viene in mente Paolo Conte “… quanta strada nei suoi sandali), ai viaggi che lo hanno portato da Sud a Nord, da Ovest a Est, verso altri luoghi fisici, mentali e sentimentali, senza mai fuggire da se stesso, aggrappandosi se mai alla poesia: “Spacciato mi ricovero nei versi / non perch’io mi guarisca, ma reparto / d’isolamento cronico: m’offersi / una lungodegenza in lieve incarto“. Una poesia spesso gridata, sempre rabbiosa, popolata di mostri, di cadaveri, di scheletri, irrorata di sangue, di bava ed altri liquami. Poesia dell’orrido, fisica e concettosa allo stesso tempo, a conferma ancora una volta delle coppie opposizionali che la sostanziano. “Escisse nuche appese a corde corte / che da quaggiù guardiamo dondolare...” è una sorta di danza macabra che ricorda la poesia funebre del Seicento e addirittura gli asceti e i mistici del medio Evo, penso a questo bellissimo componimento: “Impermeate suture / d’arrotolate / lagrime sotto / palpebre di polvere: / cucimi le mani / in preghiera / perché / implori fino all’ultimo / la grazia che mi sciolga: / formicolanti giunture / si saldano nel cieco / bramito asserragliate” Né questa tendenza alla preghiera deve meravigliare, in Paciucci il Cristianesimo è retaggio familiare e ancestrale; la figura della madre, presenza costante nella vita e nella poesia di Gianluca, è spesso vista come una Madonna (Pasolini docet) anche se negli ultimi componimenti meno ingombrante è la sua presenza e si ritaglia, invece, un suo spazio non meno importante, e altrettanto dignitoso, la figura del padre verso il quale l’autore ha un moto di straordinaria e commovente tenerezza: “Mio padre appeso bianco alla finestra / saluta con la mano e con gli occhietti: / lo guardo, mentre parto, e la mia destra / si chiude a pugno e tiene i cuori stretti”.
Accanto al Cristianesimo, un cristianesimo certo problematico e non dogmatico, convive nell’animo e nella mente di Paciucci - evidente ancora una volta la lezione di Pasolini - il Marxismo: “Il comunismo è morte allucinata / e Cristo che ritorna senza fine / vessillo che s’avvolge nell’amata / speranza urlante a vita tra le spine.” oppure “E dov’è il comunismo lì c’è Dio” Ma anche nei confronti del Comunismo c’è un atteggiamento di odio e amore o meglio ancora, citando Pasolini, lo scandalo del contraddirsi, dell’essere contro e a favore: “Il comunismo è tappa dell’errore, / è svista della storia e ne è il respiro, / è l’occhio podagroso che l’amore / può sciogliere in ruscelli di zaffiro.”
Ma come abbiamo detto Paciucci è anche incline alla bellezza, capace di momenti di struggente tenerezza verso la propria donna: “Vorrei cucirmi vivo nel tuo specchio, / guardarti più di sempre farti bella, / sfiorarti sorridente mentre invecchio / scolpito dalle ciglia d’una stella.” o nei confronti della sua città natia, ancoraggio sicuro, nonostante i furori giovanili in cui si dibatteva nella speranza di uscirne fuori, e di respirare dopo reclusioni coatte e “domeniche deluse“; Rieti “città nepente“, a cui bisogna necessariamente ritornare per dare un senso ai propri vagabondaggi, per evitare che i viaggi siano semplici spostamenti fisici.
Oggetti simbolici di questo mondo poetico sono: nuche; crani; croci; nervi, sangue; polpa; lame; feti; braci che ricorrono e si rincorrono con una certa frequenza in una lotta inesausta e mai doma dove il sogno non si piega alla realtà e la realtà per quanto preannunci crolli e macerie riesce sempre a risorgere come un’araba fenice dalle sue stesse rovine. “Frollo frinire del cranio, pensieri / clinicamente s’appendono molli / a frali travi di spume e cimieri / svettano sopra fanfare di crolli“.
Poesia colta, quella di Paciucci, ricca di implicazioni e di rimandi, costruita da sempre con un linguaggio ricercato e affilato come la lama di un bisturi, mosso con chirurgica precisione per incidere i bubboni di pus e sangue infetto che si annidano sotto la superficie cutanea. A questa straordinaria precisione lessicale bisogna aggiungere, nelle quartine, l’esatta misura del verso; sono endecasillabi a rima alternata che sembrano voler disciplinare una materia magmatica più implosa che esplosa, ricorrendo anche a una ricca ed efficacissima strumentazione retorica: metafore, metonimie, sinestesie e soprattutto ossimori, conformemente alle contrapposizioni di cui abbiamo parlato. Valga per tutti l’icastico esempio “Feto canuto” o lo straordinario componimento col quale concludo questa mia breve introduzione: “Peso del vuoto / del pugno dentro / la testa piena: / spigoli dalla nuca alla tempia / netti s’innalzano infetti / chiusi nel vuoto / del pugno pieno.”
tratto da http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?p=1307
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