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04/04/2011
Anche i versi sono contenti...
Giancarlo Cavallo Casa della poesia

Anche i versi sono contenti quando la gente si incontra. - Izet Sarajlić Qualcuno ha suonatoUn colloquio lungo, fitto, col lettore, con gli amici, con le proprie stesse poesie, con i grandi della letteratura, con i vivi e con i morti. Sembra talmente semplice, confidenziale, la poesia di Izet Sarajlić, che alla fine ci si stupisce di aver attraversato i grandi sentimenti umani, l’amore, la tragedia delle guerre, la passione politica, il dibattito letterario e più di cinquanta anni in un solo libro, in meno di duecento pagine, nemmeno troppo zeppe di caratteri (Sarajlić, Qualcuno ha suonato, Multimedia Edizioni, Salerno 2001). Fin dal titolo “Qualcuno ha suonato” e dalla foto ritratto di copertina è dichiarata l’intenzione di porre la vita quotidiana al centro dell’attenzione, senza nessuna messa in posa, nessun trucco, nessuna ostentazione, filtrata soltanto dall’io, dalla vicenda personale dell’autore. Così, perfino i tanti nomi contenuti in epigrafe o nei titoli o nel corpo stesso delle poesie, e che vanno da monumenti della letteratura internazionale quali Dante, Flaubert, Tolstoj, Cecov, Turgenev, Hikmet, Evtuscenko, Enzensberger, fino ad autori conosciuti solo in ambito slavo o a personaggi del tutto sconosciuti, perfino questi assumono l’aspetto rassicurante e familiare di persone che avremmo potuto incontrare al bar or ora, ascoltando o addirittura partecipando ad una vivace conversazione condita d’ironia e non priva di qualche frecciata salace all’indirizzo di qualche letterato così prodigo nel dedicare versi a Manhattan o alla California quanto distratto da giungere al punto di ignorare il martirio della sua Sarajevo. Tre sono i grandi protagonisti di questa importante antologia: l’amata moglie compagna di una vita, la città di Sarajevo e la vita quotidiana con i suoi “oggetti” comuni. L’intreccio di questi tre elementi con la Storia (eh sì, proprio quella alla quale Izet avrebbe voluto sottrarsi insieme alla sua amata “Mia cara, come possiamo fuggire dalla storia?” , in “Giudicano” pag. 73) trasforma questo libro in una cronaca (a volte gioiosa, più spesso dolorosa e tragica) emblematica, i cui testimoni sono di volta in volta una betulla, un fiume, un ponte, un tram, una città, un piatto in meno sulla tavola del desco quotidiano. Quello che si vede è, in un confronto serrato tra la poesia e la vita (“Quel merlo”, “Davanti allo scaffale coi libri dei miei amici”, “Piove. La mia poesia ottimista è andata a passeggio”, “Da qualche tempo”, ecc.). Considerato che Sarajevo è diventata, suo malgrado, la parabola amara di questo nostro tempo di grandi speranze ed enormi disperazioni, luogo della convivenza civile di razze e religioni (e lo stesso Sarajlic ha vissuto un felice matrimonio misto) trasformato in centro dell’intolleranza e dell’odio interrazziale, si comprende come questo libro assurga, senza alcuna forzatura da parte dell’autore o dei curatori, ad un ruolo che travalica lo stretto ambito letterario per trasformarsi in una testimonianza civile sull’umanità (e la bestialità) del secolo che si è appena concluso. Ecco allora che non può più stupire il fatto che questo autore sia in assoluto il poeta più tradotto della sua lingua in tutti i tempi, come ci dice Sinan Gudžević nella sua preziosa postfazione ed il più amato, come ci confermano lo stesso Gudžević ed Erri De Luca nei loro interventi, inseriti nel volume che si segnala per l’accuratezza della traduzione “a quattro mani” dello stesso Gudžević e di Raffaela Marzano e l’ampiezza della scelta. Per sua stessa dichiarazione Sarajlić è un poeta lirico in contrapposizione allo stile epico (“All’amico che cerca di convincermi a lasciare la poesia lirica e scrivere quella epica”), e si iscrive nel novero dell’idealismo umanistico europeo (“Addio all’idealismo umanistico europeo”), si confina nel secolo appena passato senza nascondere il rimpianto per la grande civiltà che lo ha preceduto (“L’errore”, “Progresso”, “Eredità”), sottraendo al critico il grimaldello dell’indagine e spuntando le frecce degli attacchi neo-avanguardisti o post-modernisti; d’altronde la sua insofferenza per i critici, come per gli opportunisti, è dichiarata (“I critici di poesia”). Non ha paura nemmeno di apparire neo-romantico, come, tra le altre, in “La crisi della poesia d’amore” o “Necrologio del verbo amare”. Ma va altresì rimarcata la grande carica ironica che pervade alcune delle sue migliori poesie, come ad esempio “Soggiorno ad Istambul”, che insieme alla già ricordata irruzione della vita quotidiana nella poesia, lo rendono paradossalmente attualissimo. Resta ancora da affrontare quello che ritengo un punto nodale della poesia di Izet: quel “sembrare semplice” che si evidenziava all’inizio di questo intervento. Già perché questo libro e le tante letture pubbliche che Izet ha tenuto anche in Italia (suscitando ondate emotive e riscuotendo un insolito, per il nostro paese, successo) confermano il dato di una poesia che ha il dono dell’immediatezza, di una naturale eleganza, che appare facile. Ma una lettura più attenta non tarda a scoprire quanto lavoro si nasconda dietro questa scioltezza apparente: ce lo conferma lo stesso Sarajlić con la consueta leggerezza, quando in “A Stevan Raicković” dice che “Con i miei manoscritti buttati nel cestino qualcuno avrebbe composto la sua Opera Omnia”. E ancora con grande autoironia in “Scrivere prosa”. Ovviamente la limitatezza dei miei strumenti critici non mi consente di rendergli un buon servigio, altri ben più autorevoli di me hanno affrontato la questione che ha attraversato tutto il novecento della difficoltà di una poesia svincolata dalle gabbie metriche e strutturali; ma posso asserire senza ombra di dubbio che, in qualità di scrittore, invidio ad Izet il dono della sua “semplicità”, la profonda conoscenza della sua arte che gli permette di raggiungere questo risultato, come un atleta tanto capace di dosare lo sforzo e regolare il respiro da giungere al traguardo vincendo “senza fatica”. Un’ultima notazione prima di accomiatarmi (non senza avere invitato il lettore a non farsi mancare questo volume); ho riletto più volte le poesie di Izet, ma anche nella più recente ed ennesima lettura non sono riuscito a sottrarmi ad un impeto di commozione assai prossimo alle lagrime. Stavolta mi ha tradito “Quei due abbracciati” (pag. 170), dedicata alla moglie scomparsa. Credo che sia la maniera migliore per chiudere questa recensioneQuei due abbracciati sulla riva del Reno a Gothlieben potevamo essere anche tu ed io, ma noi due non passeggeremo mai più su nessuna riva abbracciati. Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia.Giancarlo Cavallo