Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011

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Izet Sarajlić, Qualcuno ha suonato
Attlio Scarpellini Lo sciacallo

L'histoire pour vous c'etait la guerre, la mort des autres... Jean Paul Sartre a Albert Camus, 1951 "Insomma, quello che forse ci separa da Voltaire è che fu uno scrittore felice." E' possibile ritorcere questa affermazione di Roland Barthes sulla poesia di Izet Sarajlić - e dire che quello che forse ci separa dall'autore di Qualcuno ha suonato - terza delle sue raccolte tradotta in italiano - è il suo essere un poeta felice - l'ultimo dei poeti felici (dove quest' "ultimo" si dovrà ovviamente intendere nel limite soggettivo di una lettura, di un incontro)? Certo, sembra difficile giustificare questo aggettivo applicato ad una poesia che negli ultimi sette anni ha dovuto lottare con il rumore assordante della guerra - di una guerra estrema come il conflitto nella ex Jugoslavia - per ritrovarsi a intonare i suoi ultimi canti, i suoi "addii", tra le macerie umane e morali di un paese e di una lingua che non esistono più come tali. Può essere felice il poeta che scrive: "ed io /poco a poco / rimango senza popolo / cioè / senza me stesso"? Può esserlo, se la tradizione da cui proviene non si basa, come gran parte della tradizione poetica occidentale, sulla separatezza del soggetto lirico ma su una quasi identificazione tra poeta e popolo? Sarajlić abita una distanza che non è soltanto quella tra lui e noi - che sarebbe soltanto la distanza della fascinazione per il poeta "slavo" per cui anche il corpo, la voce, non sono materia privata, ma ulteriori significanti di un teatro poetico - ma tra diverse generazioni di scrittori all'interno di un universo letterario che è a sua volta un giardino cechoviano devastato dagli odi di famiglia. Nello stesso momento in cui il suo libro veniva presentato a Roma, al Teatro India andava in scena Giochi di famiglia della drammaturga serba Biljana Srbljanović. Non si potrebbe immaginare niente di più lontano dal calore di questi vecchi versi della freddezza di quella giovane metafora. Avvinghiato al filo tenue dei suoi epigrammi, Sarajlic continua comunque a contemplare - il nome di una strada o di un caffé, l'intatta identità di un luogo prima del disastro, il contrappunto dell'amore in una poesia di guerra - quello che la Srbljanović ha già passato nel tritacarne del suo cerimoniale ironico, nella macchina celibe della sua clownerie. Il poeta bosniaco ha un rapporto casto con la morte, l'iperbole dell'orrore non è nelle sue corde, nemmeno in quelle della sua indignazione o della sua ironia, insomma della sua retorica. Per Sarajlić la morte è fuori, assedia lo spazio del componimento poetico come in Racine assedia la scena, ma questa oscena immanenza non contagia la lingua che al contrario si divincola dalla sua presa grazie a ciò che della felicità dell'esperienza resta impigliato nelle sue maglie. Di quel che scompare Sarajlic non riesce a non vedere quel che rimane. In Una granata tirata dal Mrkovici, nemmeno il tiro dei mortai ("È già da trenta ore / che le granate / piovono su di noi da ogni parte") ha il potere di scalfire quell'umile, inattuale potenza dell'immagine da cui il corto-circuito poetico scaturisce come umoristico corto-circuito tra l'assurdità della storia e l'ostinazione della vita: Una di queste Ha appena sorvolato La mia poesia E' stata tirata dal Mrkovici Dove prima della guerra raccoglievo margherite Con la donna che amo Granate e margherite, la poesia nasce dall'unione tra le due immagini più distanti tra loro, come sosteneva Reverdy. Ma l'imperfetto passato del ricordo, il prima delle margherite è inchiodato al presente dal verbo "amo" - verbo e tempo che Sarajlić usa con provocatoria sfrontatezza ogni quanto può, verbo-manifesto che nella platealità di un amore senza intimismo diviene il gesto che meglio riassume le diverse essenze della sua poesia: poeta dell'amicizia, e dunque poeta cittadino, come Eluard; poeta della cronaca quotidiana, prosastico e raccontato (con qualcosa dello skaz, di quella tecnica di piccole narrazioni affastellate che viene dalla tradizione russa), anti-lirico per ideologia letteraria; poeta della pienezza del desiderio e della voce - clamans - , poeta della resurrezione di corpi, come Majakovskij... La poesia custodisce il passato nella balenante flagranza della sua vita non passata: conta le lacrime che il tempo non permette agli uomini di contare, come nei versi dedicati ad Hans Magnus Enzesberger dove il brusco trasalire di un rimpianto costringe a una deviazione, in un chemin qui ne mène nulle part, la corsa lineare dell'oblio: "A che servono i ricordi dell'amore che è ormai passato /(...) / E tuttavia io rimpiango, non so perché, quell'aprile a Sarajevo / quando asciugavi con i baci la pioggia sul volto di Masa." Nel bel mezzo di una conversazione sulla vitalistica saggezza delle separazioni, il poeta, importuno, si volta indietro... Prepotenza dei ricordi che nessuno ricorda; anche quando, come nei prosimetri di Sarajlić, esprime un messianesimo del tutto privo di pretese, la poesia testimonia dalla parte di quel "passato oppresso", privo di citazione, di cui parla Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia. Sorpreso da un altro scroscio di pioggia nel cimitero del Leone, un uomo parla alla moglie morta ("mi piace da morire /inzupparmi insieme a te") - delitto di una metafisica frugale che rasenta la più comune, la più sommessa delle follie, volere la vita che non c'è più. La nostalgia non è uno stato d'animo, è un esercizio. E' per nostalgia che Orfeo torna nella morte, e con quello stesso sguardo ritorto nel buio, strappato all'orizzonte del futuro - un solo attimo mortale, a dispetto di tutte le promesse, di tutte le ideologie - si perde, in una vertigine di amore terrestre, la moglie di Lot cantata da Anna Achmatova. Forse ha ragione Erri De Luca a scrivere nella lettera-prefazione a "Qualcuno ha suonato" che "poeta è chi trova la felicità nella stanza accanto e mai dice dopo". Bisogna appartenere al novero di quelli che, come Sarajlić, rifiutano la distanza e sostengono che "del lunedì si deve parlare il lunedì / martedì potrebbe essere già troppo tardi" (Teoria delle distanza) - al novero di quelli che, come Puskin, annotano ancora, tra una sconfitta e l'altra (al gioco, alle carte, all'amore, "alla storia"), i propri epigrammi sui polsini dello sparato. Essere i poeti felici di un al di qua della letteratura, di una sua innere Sprachforme : dove "io" non è ancora lo stonato alter ego del capzioso, onnipotente "egli". Io, oggi. Domani sarà troppo tardi. Domani, per dirla con Kierkegaard, è il giorno maledetto. Mai, scrive ancora De Luca smentendo un aforisma di Adorno secondo cui i galantuomini coniugano la felicità soltanto al passato, "la felicità è retroattiva, o riconosciuta all'istante o perduta". Certo. Ma la potenza affettiva di questa immediatezza della presenza di sé al mondo - e del mondo nelle parole che lo vorrebbero abbracciare - è sempre data al linguaggio come una vita seconda. Anche rifiutata, la distanza continua ad essere segnata, cioè tradotta. Il poeta non conosce la pienezza creaturale del silenzio del giglio e dell'uccello, ne insegue i voli con un sospiro, secondo il Kierkegaard dei Discorsi - cerca di tracciarne il brivido sul cielo del linguaggio, in una ricreazione che vorrebbe fare a meno della natura, se il poeta è Stéphane Mallarmé - o ancora, ne constata la fugacità in una lingua "semplice", quasi referenziale - ed è il caso di Sarajlić - che è l'elemento più friabile, più intenerito della realtà: la parte che dicendo addio rilancia contro la sparizione delle cose. Esiliata nel "dopo" - passione sporgente, mortale, la poesia solleva le sue eccezioni scandalose ( i suoi "eppure", i suoi "comunque") per frantumare la barriera tra il prima e il dopo, tra i vivi e i morti. Se il linguaggio umano risponde a quel ciclo dialettico per cui la cosa nella parola muore in quanto vita per risorgere come significato, la poesia resta la sua parte meno morta ( la meno dialettica, e per questo, probabilmente, la meno traducibile) come se in essa respirasse ancora il calore del corpo che a malincuore ha abbandonato. In Sarajlić la contraddizione del desiderio inceppa il meccanismo entropico della Storia, ne arresta il precipizio contrapponendo al motus perpetuus delle sue cancellazioni una lingua adamitica, nominale in cui ogni citazione, ogni dedica, fissando un'essenza inalterabile - poiché il nome è forma assoluta, pura linguisticità, altro corpo - acquisisce il valore di un colpo di mano contro la morte. Nome e dedica, amore e lettera, in ciascuno dei suoi addii Sarajlić riempie una stele, assicura nel recinto dei versi quel che alla labile memoria della comunicazione (mondo, moda, morte) è sempre sul punto di sfuggire, che si tratti di un istante di pienezza trattenuto sul ciglio dell'oscurità assoluta, della "grande arte" o di quelli che lui chiama gli "eroi della letteratura". La poesia è la mano del linguaggio chiusa in un pugno di citazioni. E viaggia, va da uno all'altro. Grazie alla posta. Cedomir Minderović, così come Turgenev amava scrivere lettere. La prima cosa che faceva in una città estranea era far lavorare la posta. Così le città estranee diventavano meno estranee. (...) Tu, che pure lo amavi, hai fatto caso che i postini sono diventati meno importanti da quando non portano più le sue lettere? (Alla memoria di Cedomir Minderović) Majakovskij, dicevamo... Anche in Sarajlić l'esigenza di un'immortalità terrestre, corporea - quell'imperioso, bretoniano "vogliamo, avremo l'al di là dei nostri giorni" che è stata la divisa (e la hybris) di tutte le avanguardie- trova nella poesia un luogo, e come per Majakovskij si tratta di un luogo comune, aperto sulla "folla umana del mondo" per citare il poeta di Quella cosa che voleva "salvezza per tutta la terra / priva d'amore..." Ma per l'autore di una lirica, scritta tra il 1987 e il 1989, cioè sul ciglio del grande crollo, che si intitola Rivoluzionario, dai non cambiamo il mondo, si tratta di un luogo fin d'ora abitabile, "pieno di prodigi per la delizia delll'anima e degli occhi": non c'è più bisogno di attendere che la rivoluzione trasformi la vita quotidiana nell'"officina delle resurrezioni umane". Al di qua e al di là di tutti i fallimenti politici - e dunque anche del fallimento dell'avanguardia - l'attenzione poetica consolida l'eredità di una vita nella quale non insiste più lo sciame meschino inculcato da "un passato da schiavi", ma la durata di un'esistenza fragile che la storia - figura cieca, innominata, metafora di un male proliferante, legionario che incorona i suoi titolari con un'aura rovesciata - minaccia di travolgere ad ogni nuovo levarsi della sua onda di piena. Se Sarajlić, come dice ancora De Luca, è capace di pronunciare la parola comunismo "senza inflessioni di invettiva o di inno (...) come uno pronuncia la parola pioggia, sandalo, balcone", è perché non è un poeta della rivoluzione, ma della resistenza. La sua lezione negli anni di una guerra subita e non cercata: restare, durare, scrivere, opporre alla retorica scrosciante delle granate - alle mille tenebre di una parola omicida come avrebbe detto Celan - , una manciata di versi frugali e lucenti irrisione, l'anti-retorica delle sue clausole pungenti, dove più negligente è il tocco, più vasta la ferita che imprime: "Stanotte in sogno / mi è venuto Slobodan Marković / per chiedere perdono delle mie ferite. // E' stata anche l'unica richiesta di perdono serba / in tutto questo tempo, // e anche questa solo nel sogno / e da un poeta morto" (Dopo essere stato ferito, 1992). E resistere alla violenza, alla guerra vuol dire finalmente rifiutare la storia, con un gesto che in poche parole limpide e prive di enfasi rende tutta la misura della propria estenuazione. Così in Addio al Tram n. 6 : Lo storico direbbe: Sarajevo è fra le prime città d'Europa Ad aver avuto il servizio di tram. Non sono uno storico, e vorrei anzi che questi anni che mi restano passassero in qualche modo - fuori dalla storia. Anche quando ero più giovane, lo desideravo. In una mia vecchia poesia l'ho anche scritto: Cara, come potremo fuggire dalla storia? (...) no, io non vedo l'ora di poter tornare, per la seconda volta in vita mia, a scrivere le mie poesie del dopoguerra. Fuggire dalla storia, destarsi dall'incubo, come diceva Joyce. Eppure, questo anelito è l'auspicio di un uomo che è rimasto, che non ha mai abbandonato la "folla umana" che gremisce la scena dei suoi congedi, le strade della sua città, i suoi parchi lastricati di lapidi - e in piena guerra ha continuato a esercitare la propria vocazione poetica con la stessa naturalezza con cui un santo continua a esercitare la carità anche all'inferno. Sarebbe facile, ancora una volta, stigmatizzare questa attitudine alla fuga dimenticando che essa è incardinata in uno dei testi originari della letteratura jugoslava, Lettera 1920 di Ivo Andrić. Dimenticando che "ai bosniaci e ai ceceni / (...) / secondo un'identica sceneggiatura, / è toccata anche la parte più crudele della storia" (ancora Addio al Tram n.6). Ma bisogna considerare la differenza di questo sguardo sulla storia - sguardo riverso, schiacciato - sguardo grassroots, senza nemmeno più la consolazione di spalancare gli occhi, come il principe Andrej in Guerra e Pace contro la ferita azzurra del cielo - che finisce con l'accomunare in un solo de profundis dei "domani che cantano" gran parte della letteratura est-europea di questa fine secolo - della letteratura e della poesia, da Milosz a Brodskij, fino a Sarajlić. La storia è questa dissipazione di voci di cui Roman Jakobson, dopo il suicidio di Majakovskij, enumerava le cadute brusche e rovinose: "La fucilazione di Gumilev (...) la lunga agonia spirituale e gli insopportabili tormenti di Blok, le crudeli privazioni e la morte tra sofferenze inumane di Chlebnikov, i meditati suicidi di Esenin e di Majakovskij. Così nel corso degli anni venti periscono in età tra i trenta e i quarant'anni gli ispiratori di una generazione, e in ognuno di essi v'è la coscienza dell'ineluttabile condanna, intollerabile nella sua lentezza e precisione" (Roman Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti). E l'appello è ancora incompleto. Mancano i passi perduti nella neve attorno alle baracche del GULag di Mandel'stam, lo scatto ferino con cui Marina Cvetaeva decide di tornare tra i sommersi... Il poeta di Qualcuno ha suonato - a cui De Luca invidia il privilegio di una vita più lunga dentro il novecento - viene anche da questo sacrificio, da questa sopravvivenza. E' due, tre volte sopravvissuto. A due guerre - e al peggiore dei tradimenti, quello delle parole. Prima di essere fucilato, Gumilev diceva di sentire attorno a sé un insopportabile odore di "parole morte". Non doveva essere un odore molto diverso quello che il lessico nazional-totalitario diffondeva sui palazzi di Sarajevo malati di lebbra - e qui da noi, nell'epoca in cui sulla ex Jugoslavia prevalsero i discorsi degli amici di Giobbe. Ma Izet Sarajlić, poeta del purgatorio come lo definisce Sinan Gudzević, ha continuato imperterrito a scrivere e a sognare nella lingua perduta di un secolo e di un popolo, immaginando che il proprio amore la rendesse ancora viva. Attilio Scarpellini