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04/04/2011

05/02/2007 La parola dei poeti: Milo De Angelis

La parola dei poeti: Milo De Angelis
05/02/2007 Francesco Napoli Letture

“Tema dell’addio”, la sua ultima raccolta, principia, da una sorta di ossimoro logico, da un arrivo.

È vero, la prima poesia della raccolta nasce dal racconto dell’attesa di un Eurostar da Roma e dall’arrivo della persona amata, ma “Tema dell’addio” è la storia di un addio: giunge la morte da un luogo lontano e io la interrogo e interrogandola scopro di me cose che non sapevo.

C’è in questa raccolta come una sorta di cortocircuito tra presente e passato, sintagmi come “non è più dato” o “non c’era più tempo” in qualche misura lo segnalano. Come si riflette il passato nel presente della sua poesia e di “Tema dell’addio” in particolare?

C’è sempre stato in me questo intreccio di un passato che diventa così vivo da essere imminente. Quindi non una ricerca del tempo perduto, un andare passo dopo passo verso un luogo profondo da cui prendere materiali da riportare alla luce ma più un tempo che si affaccia al presente, lo riempie di sé.

Oggi, nel presente, il passato non è più; ieri, nel passato, non c’era tempo per il presente…

Il passato ci parla continuamente, occorre andare ad ascoltarlo nei luoghi deputati che sono i luoghi che si sono amati. A me capita spesso, quasi fossi interpellato e interrogato da questi luoghi, di andare lì, come un esploratore che fa ricerca sul campo, a capire quale è esattamente la strada che mi chiama. Allora io vado. Via Crescenzago a Milano è una via che mi ha chiamato di sovente. E di sera sono andato diverse volte a vedere che cosa voleva, si è instaurato un dialogo, anche scherzoso, come fosse una persona. Via Crescenzago, che nome lungo hai, quasi non ci stai in un verso, meglio via Feltre. E da questo richiamo si crea il ritorno del passato nel presente.

Milano e la periferia restano riferimenti nella sua poesia e in “Tema dell’addio”, tra tanto cemento e asfalto la città non è desertificata.

La periferia è essenziale in me e quella di Milano ha un suo spessore storico. Non si può dire che la Bovisa o Sesto siano meno importanti di piazza della Scala o del Duomo. La periferia non è solo qualcosa di esterno rispetto al centro ma è un mondo, con i suoi stili, la sua tradizione e le sue vicende. Ci sono periferie storiche come Bruzzano o Affori ma ci sono anche quelle sperimentali. È un mondo che io cerco di lasciar parlare, tenendo anche conto che Milano è l’antitesi della città eterna, è una città dell’ultima volta, sempre sulle soglie di qualcosa che sta per distruggersi e che deve essere cantato prima che sia troppo tardi.

Una delle interpretazioni più malevoli nei confronti del suo fare è stata quella di avere un linguaggio e una struttura della poesia chiusa e oscura, una scrittura inquieta e mossa. Invece “Tema dell’addio” riprende la capacità comunicativa. Una conversione, uno sbocco naturale o erano troppo malevoli quelle interpretazioni?

È un percorso accidentato il mio, a strappi, a contraccolpi. “Somiglianze” è un libro di oscurità ma non solo, è un libro di parole innamorate, di scene, di personaggi. Certo “Millimetri” ora per me è un libro spaventoso, una sorta di terremoto psichico che mi ha preso, una testimonianza di un’oscurità nella quale ero precipitato, chissà per quale ragione. “Terre del viso” è un’altra cosa ancora, quasi fiabesco e leggendario; “Distante un padre” segna un ritorno a un’oscurità densa e delirante, mentre “Biografia sommaria” è un’apertura verso scene di grandi amici, di grandi ombre ritrovate nella città. Il mio è un percorso che alterna momenti di concentrazione a momenti di distensione, dove le cose vanno troppo in fretta. Movimenti di riassestamento dopo una corsa trafelata e poi di nuovo di corsa.

Affacciamoci allora a questo percorso, inaugurato nel 1975 con la presenza in Il pubblico della poesia, l’importante antologia curata da Berardinelli e Cordelli, i critici che avrebbero dovuto accompagnare la sua generazione.

È vero: Cordelli e Berardinelli suscitarono grandi speranze e l’antologia aveva notevole importanza. Quelli erano gli anni della mia formazione con i maestri che sono stati tanti. Magari ragazzi più grandi di me che però avevano già letto il libro giusto, che citavano il verso più appropriato magari in un dialogo fitto all’uscita di un cinema. In genere si tende a focalizzare come maestri tre o quattro nomi, ma sono anche incontri sotterranei e silenziosi che non hanno avuto neppure il tempo di diventare un’amicizia a fare da maestri.

Ma i Fortini e i Bigongiari in più occasioni menzionati?

Certo, Fortini è stato fondamentale nonostante i suoi mille contrasti, ma con lui ci si poteva relazionare solo sul piano della conflittualità. Ricordo come io, diciassettenne, nel vederlo adirarsi ne ero intimorito: se trovava un verso con una pecca, usava questo termine, era capace di urlare “non c’era ragione di andare a capo in questo modo!” con una severità assoluta, come se da quel verso potesse dipendere l’intera riuscita di una raccolta. Mentre Bigongiari era tutt’altra cosa: aveva una capacità di accoglienza, di continuare il tuo discorso. Insomma certamente una figura bonaria, e io allora avevo bisogno di ambedue queste figure: quella implacabile fortiniana e quella della luce di Bigongiari.

Poi nel 1978 “Niebo”, e Niebo si chiama la collana di poesia che oggi dirige. Un’esperienza che ha rotto con la Neoavanguardia. Cosa le resta?

Certo fu rottura con la Neoavanguardia e quel suo legame con lo strutturalismo e la semiologia che imponeva una lettura non sentimentale del testo. Ma c’era anche lo storicismo imperante e la poesia slogan del Movimento. Contro tutto questo, ma senza mai nominarlo, “Niebo” è nata, mai rivista di odio e inimicizie ma solo fatta per dialogare con i poeti del passato in un rapporto e in un modo assoluto.

Nella sua generazione lei è uno di quelli che lavora maggiormente sul verso. Ha dichiarato in altre occasioni che progressivamente scrive nel tentativo di ricordare con esattezza quanto udito.

Pubblicato un libro io non riprendo più quei versi ma è vero che arrivare a quel testo è un incontro continuo con il demone delle varianti, anche aspro. Per “Millimetri” ci sono migliaia di pagine di tentativi, di approssimazioni, scritte tante di quelle volte che l’ultima, la versione definitiva, viene fuori perché non si stava più in piedi fisicamente. Prevale l’ultima per spossatezza fisica. In genere un vortice di stesure con quaderni e quaderni, ma con l’eccezione dell’ultimo libro, “Tema dell’addio”, che nasce in una sola estate in una sorta di furia espressiva.

Francesco Napoli

 

Intervista realizzata, a Casa della poesia, in occasione della rassegna “Poesia italiana contemporanea”.