Gianni D’Elia, classe 1953, nell’articolato panorama della poesia italiana contemporanea si distanzia sin dagli esordi nel 1980 con “Non per chi va” sia dall’innamoratismo della parola che dalla neopoesia degli anni Settanta. Idealmente vicino al gruppo e alla poetica di “Officina”, predilige di Pasolini la misura del poemetto, rivitalizzandolo e ponendo particolare attenzione alla linea dantesca della nostra poesia, anche con l’insistito utilizzo di misure canoniche come quartine e terzine.
Questa sua raccolta appena uscita, meglio parlare di lungo poemetto, si caratterizza per una sorta di struttura dantesca con sei cantiche, una scelta che rafforzata dalla terzina in cui si compone.
Sei i canti, il primo s’intitola “La cena”, ed è anche il più breve e dà l’idea del cominciamento. Al lettore deve restare un po’ nella testa in quanto tutto quanto poi verrà detto lo sarà nel corso in un lunghissimo convivio che poi sfocia nel sogno con un margine tra realtà, immaginazione e finzione.
E questo gusto dell’inserto e del plagio attivo?
Il libro è effettivamente pieno di inserti. Non è tutta farina del mio sacco o, meglio, è tutta farina proveniente da diverse parti e tutta affluita nel mio sacco, da tante voci. “Ognuno muore, il popolo rimane”, ad esempio, è la sintesi di alcuni versi di Gorkij che campeggiano a casa Pascoli, sintesi dell’idea socialista. Poi io naturalmente la terzina che lo contiene l’ho costruita attingendo ad altre farine giunte nel mio sacco.
E il titolo “Trovatori” da dove arriva, invece?
Il titolo è semplice, anche se è un secondo titolo. Il primo doveva essere “Il parlar franco”. Guardando nel disordine delle mie cartelle mi sono accorto che già “Sulla riva dell’epoca” doveva chiamarsi così, “Il parlar franco”, e quindi ho dedotto che l’intero progetto parte agli inizi del Novanta. Poi dopo ho chiamato “Sulla riva dell’epoca” i testi tra 1992 e 1998, il primo dei poemi dopo la fine della mia stagione della lirica. Ho dapprima lavorato su forme brevi, che aspiravano comunque a una maggiore lunghezza, e poi sul progetto del poema più unitario. Infatti, “Sulla riva” e “Bassa stagione” formano un dittico. La mia sensazione è che ora “Trovatori” esce da questa linea. Potrebbe essere l’inizio di un nuovo periodo: ho chiuso con il poemetto narrativo-descrittivo, pasoliniano ma rinnovato e portato avanti per sezioni più ampie, con l’idea del poema narrativo digressivo, pensando a Gogol’ e alla grande intuizione che l’arte moderna del romanzo e della poesia viaggiano sulla digressione. Quest’ultimo potrei definirlo un poema dialogico. Il titolo è diventato “Trovatori” perché “Il parlar franco” l’ho bruciato prestandolo ad amici per una rivista dialettale che doveva chiamarsi “Il parlar materno”. Mi piace che ci sia un plurale al titolo del libro, ci sono anche più personaggi sulla scena, mentre “Il parlar franco” era singolare, sovracategoriale, bisognava interpretarlo, più da saggio in altre parole, mentre “Trovatori” è più efficace. Una cosa analoga mi è capitata ai tempi del “Congedo dalla vecchia Olivetti” che doveva inizialmente chiamarsi “Passo doppio”. Poi il titolo l’ho modificato, per suggestioni fortiniane se vogliamo, ed è stato meglio così. Spero possa portarmi uguale fortuna questo forzato cambiamento nel titolo.
Trovatori rima con oppositori. Ma a cosa?
Riprendo quell’idea dell’origine di Dante che sta in Arnaut Daniel. “Il miglior fabbro del parlar materno” lo definisce Dante quando lo incontra nel ventiseiesimo canto del Purgatorio e si comprende come per Alighieri la base poetica siano proprio i trovatori. Il suo messaggio implicito per la poesia italiana è che forse bisogna andare a scavare nelle origini dell’Europa e la sintesi di queste sono insite nella stessa lingua dei trovatori. Una sottotraccia è che l’Europa sta in piedi anche perché ci sono stati i trovatori, arrivati in Italia da Sud e i trovieri da nord. Accerchiando la nostra terra sembrano aver dato materia ai poeti futuri e la base addirittura dei linguaggi e di alcune delle ispirazioni: il tema dell’amore e della guerra è loro, dei trovatori.
In fondo è il lavoro fatto sempre, sin dagli inizi, nella sua poesia: un’assidua ricerca sul linguaggio, con la rivista “Lengua” e con la lettura, tra le sue iniziali, della Crestomazia della poesia delle origini. Siamo ora di fronte a un continuum.
Forse “Trovatori” è l’opera d’arte che porta a compimento tutta quella teoresi giovanile condotta per anni con tanti altri amici, che era quella degli inizi, della rivista “Lengua”. Forse quest’ultimo libro rappresenta la prassi dopo vent’anni di teoria, sedimentata nel tempo, quando eravamo troppo astratti. “Trovatori” mi pare sia nato proprio da una grande concretezza. Sento in questi versi come una sorta di rinascita nel mio lavoro, come una possibilità di fare di più per la poesia ma soprattutto di non fare da soli, con il monologico, ma essere disposti ad ascoltare le tante voci che ci attraversano trovando quell’invenzione, quell’idea, allargandosi dall’io al noi, al tutti, per raccontare, qui come nuovi trovatori, lo sdegno per il tempo presente.
Francesco Napoli
Intervista realizzata, a Casa della poesia, in occasione della rassegna “Poesia italiana contemporanea”.
Un trovatore fra Dante e la contemporaneità Il trovatore non è solo un abile esecutore di poesia, ma è anche colui che va a scoprire ciò che da tempo è seppellito o nascosto. L’errore sta nel credere che questa rivelazione avvenga in forma ingenua, prescindendo dalla conoscenza, mentre avviene proprio attraverso un’approfondita sapienza maturata nel tempo. Gianni D’Elia con questa sua ultima prova, “I trovatori” (Einaudi, 122 pp., 11,50 euro), mostra un’autentica sapienza nel voler seguire un altro modello poematico, oltrepassando quello pasoliniano, con una scelta indirizzata al recupero della polifonia, inserendosi così sulla linea dantesca della poesia italiana. Qui, come nella "Commedia", l’insieme è dato da una serie di cantiche e un’idea di viaggio agli Inferi dove “Ogni sera si accendono i gironi,/ mille canali, sulle stesse bolge,/ la guerra, all’ora degli ascolti buoni”; la struttura si fonda sulle terzine, assonanti e in rima, secondo una tessitura di raffinata suadenza; e l’endecasillabo, talvolta pietroso sul piano del linguaggio ma sempre persuasivamente ritmico, campeggia verso dopo verso. E c’è un’ampia, talvolta nascosta, genia di maestri: Leopardi su tutti, non solo per quel “nel dolce naufragare dentro al mare” ma soprattutto per l’autorizzazione ad un uso agrammaticale della lingua poetica. Ma ci sono anche Fortini, Pasolini, Roversi e altri, amici (tra questi Loi o il compianto Pagnanelli) e figure familiari (su tutte quella paterna), sembianti richiamati nell’intenso canto di questo poema tessuto sul filo di una fraterna convivialità, con un fitto dialogo a più voci e rimandi nel quale la letterarietà si coniuga a un duecentesco “parlar franco” in grado di ricondurre alle origini di una parola poetica potente e memorabile.
Francesco Napoli