Non ha abbandonato, o quasi, una stretta collaborazione tra poesia e prosa, neppure in quest’ultima prova. Come arriva a questo rapporto tra due passi antitetici, almeno apparentemente, della scrittura?
Credo che abbiano agito gli studi di storia dell’arte. Penso che proprio visivamente a volte è come se la scrittura dovesse raggrumarsi e altre volte invece come se gocciasse. C’è un rapporto molto concreto, come se la vedessi. Un aspetto visuale e anche tattile, di un tattile tutto interiore naturalmente, perché effettivamente ha a che fare con questo raggrumarsi e sciogliersi.
Il titolo ha suscitato qualche riserva in alcuni critici, eppure indica senza mediazioni la prospettiva, l’angolo dal quale leggere il mondo e l’uomo attraverso questi versi? Esemplifico ricordando i versi eponimi della raccolta: “la percezione del dolore trasportata all’esterno,/ vista dal balcone del corpo”.
Questo titolo è stato scelto con Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi dopo molto discutere e ne sono assolutamente convinta perché effettivamente il nostro corpo è come un balcone, mette in condizioni di sporgersi verso qualcos’altro e il corpo puň essere davvero paragonato ad un balcone: appartiene alla casa ma non è la casa, è nello spazio ma non è lo spazio, vi è sospeso. Uno dei tentativi di questo libro è anche interrogarmi sul rapporto del corpo con lo spazio, con ciò che non vi appartiene totalmente ma che col corpo interagisce.
Colpisce la sezione Limba, in “un linguaggio che non è dialetto”, in logodurese. Come son nate queste poesie che si isolano nella raccolta e nella sua produzione piů in generale?
La poesia Limba è nata casualmente. Lodoli mi aveva chiesto una poesia per Roma in tempi brevi e non riuscivo a scriverla, ma nei tentativi esperiti abbastanza sorprendentemente è venuta fuori: non era una lingua che padroneggiavo, ma l’avevo ascoltato da bambina. In un secondo momento, quando quasi mi sembrava di non avere una lingua per dire un dolore, sono nate per la stessa sezione gli Attittos, il lamento funebre delle donne in Sardegna e rivolto alla persona uccisa. L’etimologia di questa parola è abbastanza incerta: per alcuni viene da attizzare verso la vendetta, preferisco però l’etimologia che significa allattare e poi c’è una terza etimologia che indicherebbe il singhiozzo, attittos come singhiozzo, quasi una onomatopea. C’è del latino, con incursioni catalane, in questa lingua logudorese.
Ha lavorato tanto nelle traduzioni, e quanto Limba ne risente?
Mi interessa questo andare avanti e indietro fra le lingue, sono una grande lettrice di vocabolari e dizionari perché lì c’è sempre una sorpresa, un movimento o uno scorrere tra le lingue. È stato cercare come delle risposte a questa lingua estranea, come se questa lettura chiedesse una risposta, e in alcuni casi sono nate delle poesie autonome o traduzioni. In “Limba” a volte i testi nascevano in italiano e poi li traducevo e viceversa, ma è stata un’esperienza confortante perché è stato come se una lingua ammaestrasse l’altra, soprattutto per sottrazione. Capivo ogni volta che ritraducevo cosa togliere, cosa non era necessario.
"Residenze invernali" è la raccolta d’esordio del 1992. Nasce, almeno in parte, da un’esperienza certo dolorosa e personale. Come intende il rapporto tra biografia e poesia?
Prima di tutto la poesia ci scaccia, quando la poesia è finita noi non ci siamo piů. E questo è un dato. Quindi non è mai biografica o non è solo biografica: c’è continuamente, o almeno a me succede questo, la vita altrui che entra, la memoria di racconti di altre persone. Anche qui c’è qualcosa che si spalanca, non c’è mai un io univoco. Nel momento stesso in cui c’è la mia subito mi si affollano altre voci ed esperienze. Così in "Residenze invernali" questa malattia famigliare mi ha anche reso più acuto lo sguardo verso altre esperienze e questo è un dono della poesia. E come prendere le biografie di tutti quelli che ti circondano.
"Notti di pace occidentale"?
Un titolo ironico. Gran parte delle poesie son nate durante la guerra del Golfo e in quella della ex-Jugoslavia poiché ho avuto la netta percezione di un idea di pace in cui l’occidente si era cullato e un tempo diverso. Mi è stato chiaro che da quel momento in avanti fosse piů giusto parlare di tregua. Mi sembrava che l’Occidente usasse la parola pace ma che in realtŕ stesse vivendo una tregua anche abbastanza atterrita. La guerra nell’ex Jugoslavia era molto vicina, alle porte. Molte poesie sono nate da questa riflessione, non volevo scrivere un libro “impegnato”, volevo riflettere su una cosa che la guerra azzera, cioè il dettaglio.
Francesco Napoli
Intervista realizzata, a Casa della poesia, in occasione della rassegna “Poesia italiana contemporanea”.