Questa era la storia di mio padre.
Quella che non ha mai raccontato. “Cose terribili” diceva,
“cose terribili.” O forse non gliel’abbiamo mai chiesta, non ascoltavamo.
Mio padre, lo straniero con la faccia ruvida
che andava e veniva in uniforme.
Papà andava alla Guerra, come gli altri padri andavano al Lavoro.
Dov’era la Guerra? Chi era la donna? Si chiamava Virginia?
E quant’è un tempo lungo?
Quello che mi resta sono pochi frammenti, vecchie lettere, foto –
il giovane dai capelli neri, con quel suo sorriso asimmetrico
che si appoggia all’aereo in tenuta da volo con tutte le zip,
compartimenti segreti in cui teneva il giornale di bordo che ora ho io.
La pelle ha cominciato a sgualcirsi, a sbriciolarsi,
ma la scrittura è chiara, la lista delle navi affondate.
È uno strano canto che comincia così:
“Wasp, Princeton, Kirishima, Hornett, Shaho, Yura,
Chicago, Akagi, Atlanta, Sealion, Kinugasa,
Astoria, Mikuma, Kako, Northampton, Helena...
That was my father’s story.
The one he never told. “Terrible things” he would say,
“terrible things.” Or maybe we never asked, didn’t listen.
My father, the stranger with the scratchy face
coming and going in his uniform.
Daddy went to War, like other daddies went to Work.
Where was War? Who was a broad? Was her name Virginia?
How long is a long time?
All I have is a few scraps, old letters, photographs –
the young black-haired man, smiling that lopsided smile
leaning against a plane in his flight suit with all the zips,
secret compartments where he’d have kept the log book I now keep.
The leather has started to dogear, to crumble,
but the writing is clear, the list of ships sunk.
It’s a strange chant that begins like this:
“Wasp, Princeton, Kirishima, Hornet, Shaho, Yura,
Chicago, Akagi, Atlanta, Sealion, Kinugasa,
Astoria, Mikuma, Kako, Northampton, Helena……