Ora noi, che ci abbiamo creduto
alla favola del Novecento, e molto
di noi e molta vita abbiamo perduto
tra le formule del nostro tempo, quella,
almeno, spogliata delle formule,
ritorna a noi come il bel vento
che accarezza sul moletto il nostro stesso
viso, in questa stessa aria, benché spento
del sorriso che dava il mondo scoperto
come qualcosa in cui eravamo dentro,
non più oggetti di una vicenda privata,
ma viventi in una storia sognata
e perduta, certo, come la vita di strada,
i mille incontri con le mille persone,
operai davanti ai cancelli, il cui nome
uno ad uno in quegli anni sapevamo,
andando alle fabbriche, in cerca d’adozione,
se la piccola borghesia in cui eravamo
nati cresciuti, e di cui già avevamo
appreso la consuetudine alla nausea,
ci spingeva a cercare altrove una causa
per cui valesse la pena di lottare,
e non solo sopravvivere e accettare
l’ordine imposto dalla società venale;
e fu così che noi dicemmo basta,
dicendo sì alla favola di carta
che ci ha portato fino a qui a bruciare
la nostra vita, per un bell’ideale…
(da: Gianni D’Elia, Sulla riva dell’epoca, 2000).