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04/04/2011

Le sorgenti del Volga Poesie

Le sorgenti del Volga
I
Per eredità venuta di povero
mi scopro nel lutto stretto
del letto socialista. Un virtuale
fascio di doghe a croce e l’onere
funesto di un onore che masticava
prima le virtù, le ergeva nella pietra.
“Il manto esterno è di legno
e l’ho piallato per venticinque anni
è stato come un corpulento sussidio
un supplemento dell’opera divina.”
Nell’isba numerata
come in un gulag per famiglie
o come nella casa d’alberi di Heidi
dall’incerata ignominiosa
poteva ammirarsi la stellata
e a volersi proprio palesare
lo storto Aquilone
nella trapunta copia della tela.
II
Poteva aver cominciato
dal buco inaccostabile
nella terra fradicia di buio
un’acqua nera e fosse
solo una pozza incassata
dell’immenso acquitrino
o la grande speranza
d’una piovana frescura
là mi rannicchio, dove
una betullina si frasca
e mi trivella il cuore
III
Per un pronto concorso di fanghiglie
come musica che s’avvicina al culmine
ci forma corda una riuscita schiumosa
e che ci consoli o ci impicchi, un bivio
ci ferma nel tetro alveo, nella striscia
che separa i flussi occlusi
e poi uno intraveduto sul Baltico
e l’altro, serpentino spiraglio del Caspio.
Andare a ritroso sfiora più di un errore.
Inciampare, franare ci era inevitabile
e come un lupo grigio ci seguiva
il fronte spurio delle acque confuse
quasi ad occultare il punto sorgivo.
“Più a nord il varco sarebbe preciso
se non si congiungesse al vecchio tracciato
al danno già arrecato dai ricordi interrotti.”
IV
un muschio alto una spanna riempiva le trincee.
“Si vendeva a libbre il grasso umano…”
Ma nel bosco era facile conoscervi, gentili Italiani
che non amate la guerra. Non arma in collo
non, come i tedeschi, càntici di stirpe, ma fra le dita
oscillando al lento passo, svogliavasi il moschetto.
V
Sembravano tozzi di pane
caldi babbini fatti di rami
di quercia, mani buone
per la colla, il ferro, la ruggine
d’improvvisati allumini.
Rattoppava perfino gli stivali.
I bambini crescevano a largo
al di qua dei barbari aghiformi.
Tranelli e veleni s’erano sommersi
e le età perdute di cervello. “E quello.
Una bottiglia rubata dallo spaccio
lo spacciò, per venticinque anni
a rimpolpare le ferraglie
del Circolo Polare.” E quella
che aveva questa casa
questa isba sbilenca
e mezza stalla, era per
certo una kulaka, una diafana
sagoma danzante
nella delata, magica lanterna.
La figlia andò a sminare il campo.
Ma lei, dopo l’inverno di pecore feroci
tornerà a piantare le patate di Maggio.
VI
L’erba rigogliava di steli
a due colori. Un viola e un giallo
per qualche antico patto
della stessa inflorescenza.
John and Mary, si chiamavano
gli intrecciati custodi dell’estate
ormai inerte e al confine li coglieva
con l’immutabile umore di chi guarda in basso.
L’inseparabile coppia ornava brocche
su tavole consunte, casse slegate
e sotto, le cacche dei topi, scongelate
al tepore illusorio, è già caliginoso.
Nessuno guardava verso l’alto
per scrutare il tempo, o per altro.
Ma una sera mi risvegliò sul faticato letto
dal concavo incubo di un sonno introvabile
per ammirare il sentiero della luna nel lago
un sorbo rossastro nella notte bianca.
Sopra il muschio si preparava
la perfezione dell’inverno
quando il villaggio conterà tre anime.
VI
Accanto alle sorgenti che nessuno ha visto
ripenso ai loro morti. E a noi, non ancora nati.
E mi prende l’invidia, il desiderio stolto
d’un medesimo invito nell’aria incivile
che mi pare per tutti non potrà bastarci.
Sono di noi la nota più temuta, la più a lungo
tenuta, lo schianto al petto del rigore mancato.
Sull’angusta soglia mi tolgo le scarpe ingommate.
Se non avessi vergogna, di attendere
le nevi imminenti, le minuziose disinfezioni
e, a cagione di esempio, pochi per volta vivere…
Non a noi, ma a loro appartiene l’eccedente
se anche alla vampa della stufa più cocente
loro, dentro di noi, non si scioglieranno mai.