Mi presero al mercato
dove la mia gente una volta vendeva vestiti,
e dove ora gli albanesi praticano il contrabbando.
Quattro uomini mi gettarono sul sedile posteriore
di una Lada blu, urlando “Lo abbiamo detto,
niente zingari a Pristina.”
Mentre mi spingevano giù sul fondo,
sentivo la canna della pistola sull’orecchio sinistro. Era così fredda
che sussultai proprio mentre qualcuno premette il grilletto.
Il sangue mi schizzò su un lato della faccia
dalla ferita sulla spalla.
Caddi, fingendomi morto.
Pregai la mia amata madre morta, tutti i
mulos*, affinché questi uomini non si accorgessero da dove
fuoriusciva il sangue. Quando arrivammo,
mi tirarono fuori per i piedi. La testa si schiantò
sul terreno, rimbalzando sulle pietre.
Mi gettarono a testa in giù in un pozzo.
Non raggiunsi mai l’acqua.
C’erano troppi corpi.
Giacevo rannicchiato, quasi incosciente
finché la puzza e il bruciore della calce viva
non mi fecero rinvenire.
Trattenni il fiato finché non sentii
ripartire la macchina, ma poi soffocai
per il fetore che mi circondava.
Con una sola mano, mi trascinai
aggrappandomi a gambe rigide
che mi fecero da scala per arrampicarmi.
La faccia, le mani, tutto il mio corpo
bruciava per la calce. Usai dell’erba
per pulire quello che potevo,
poi barcollai giù per una strada sporca
verso una lunga fila
di luci che si muovevano lentamente.
Venti minuti più tardi ero sull’autostrada
guardando i camion e le jeep verde oliva,
che mi passavano accanto come se fossi un palo del telefono.
Alla fine crollai davanti a due fari.
Non so dire se l’ultimo rumore che sentii
fu uno stridio o un grido.
Il giorno dopo in un ospedale militare
qualcuno della NATO mi interrogò per alcuni minuti.
L’interprete albanese fece sorridere i soldati.
A mezzogiorno stavo camminando
attraverso un bosco seguendo un sentiero per carri
che nessuno usa più,
tranne gli zingari
che fuggono da un paese
in cui hanno vissuto
per quasi
settecento anni.
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* Mulos: spiriti di zingari defunti a cui non è stato ancora concesso di entrare nel regno dei morti.
They caught me in the marketplace
where my people used to sell clothes,
where Albanians now sell contraband.
Four men threw me into the back seat
of a blue Lada, yelling, “We told you,
no more Gypsies in Prishtina.”
As I was pushed down on the floor,
I felt the gun barrel in my left ear. It was so cold
I jerked just as someone pulled the trigger.
Blood splattered the side of my face
from the wound in my shoulder.
I collapsed, pretending to be dead.
I prayed to my dear, deceased mother, to all
mulos, that these men wouldn’t see from where
the blood was oozing. When we arrived, they
dragged me out by my feet. My head crashed on
the ground, bouncing over several stones.
They threw me head-first into a well.
I never reached the water.
There were too many bodies.
I lay crumpled up, almost unconscious
until the smell and sting of wet lime
brought me back to my senses.
I held my breath until I heard
the car leave, then choked
on the stench around me.
With only one hand, I pulled
myself over stiff legs that became
my ladder to climb out.
My face, my hands, my whole body
burned from the lime. I used grass
to wipe off what I could,
then stumbled down a dirt road
toward a long line
of slow-moving lights.
Twenty minutes later I was on the highway
watching olive-colored trucks and jeeps,
driving past me as if I were a telephone pole.
I finally collapsed in front of two headlights.
I couldn’t tell if the last sound I heard
was a screech or a scream.
The next day in a military hospital
NATO interviewed me for a few minutes.
The Albanian interpreter made the soldiers smile.
By mid-day I was walking
through a woods following a wagon trail
nobody uses anymore,
except Gypsies
escaping a country
where they have lived
for almost
seven hundred years.
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* Mulos: ghosts of dead Gypsies, still not allowed to enter the realm of the dead.