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04/04/2011

baino-mariano-48 Altro

Mariano Bàino
ANGELO PETRELLA
“CONTAMIN-MONTAGGIAZIONE”: LA POESIA DI MARIANO BÀINO


Il vero problema teorico
è la ragione pratica della letteratura.

Edoardo Sanguineti

1. La formazione teorica e il contesto storico

All’inizio degli anni Ottanta Mariano Bàino collabora con la rivista napoletana «Altri termini», diretta da Franco Cavallo, fortemente impegnata in un’analisi critica dell’avanguardia nonché nella riscoperta e promozione di autori della “contraddizione” soffocati dall’establishment. La prima opera di Bàino, poi, viene pubblicata per le edizioni Tam Tam di Adriano Spatola, poeta appartenente all’ala “eretica” della neoavanguardia, contraddistintasi per il suo allacciamento diretto alle avanguardie storiche, in particolar modo al surrealismo. In seguito, a partire dal 1989, Bàino parteciperà ai lavori del “Gruppo 93” e fonderà, assieme a Biagio Cepollaro e Lello Voce, la rivista “Baldus”, nel cui numero d’esordio scriverà: «una rivista, dunque, che nel darsi un tale nome sceglie la contaminazione quale campo privilegiato, sebbene non esclusivo, di riflessione. Anche, se non soprattutto, per analizzarne le possibilità relative ad una sperimentazione nuova, in un’epoca di mutamenti delle strutture comunicative, e di generale e complessa ridefinizione della cultura e dei suoi oggetti (1)».
L’area in cui Bàino si forma è dunque definibile come materialistica, ovvero incentrata sulla valutazione del prodotto letterario come creazione materiale immersa in un contesto di tendenze storiche. Nell’opera bainiana è ben presente una componente teorica, facilmente rilevabile nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni, che consente appunto di isolare immediatamente alcuni “poli” utili a una decifrazione delle sue posizioni. Ciò permette di ovviare in gran parte allo svantaggio in cui lo studioso di un autore vivente spesso s’imbatte: quello della vicinanza temporale, che non consente una storicizzazione completa per mancanza di distanza dall’oggetto. Ma in questo saggio tenteremo di trovare poche linee-guida essenziali per poi mettere in rilievo alcune peculiarità dellapoesia di Bàino e, con essa, della ricerca poetica di fine Novecento.
Innanzitutto, se reinseriamo la formazione di Bàino nel suo contesto storico, ci rendiamo conto che essa emerge in un periodo di conflitto piuttosto serrato tra poetiche antagoniste. Gli anni Settanta – anni di riflusso culturale in seguito alla fine dell’esperienza neoavanguardistica e della contestazione sessantottina – si contraddistinguono per una restaurazione di moduli tradizionali della poesia, con spiccato ritorno al simbolismo, al lirismo evocativo e al sentimentalismo. Ma essi si segnalano anche per l’avanzare di posizioni teoriche, poi definite postmoderniste, tendenti a rilevare la fine della modernità, la morte dell’avanguardia, l’impossibilità di perpetrare il progresso della ricerca: è la vittoria del mercato e del suo linguaggio, quello onnipervasivo dei mass-media.
Contro queste posizioni è netta la presa di distanza del primo Bàino: il linguaggio non è mai qualcosa di neutrale, ma è sempre ideologizzato, dunque qualsiasi forma di rassegnazione o di esorcismo della realtà è frutto di una scelta di tendenza, mirante appunto ad avallare lo status quo della cultura. La poesia deve piuttosto sperimentare nuove forme per reinstaurare un dialogo critico con il lettore, scuotendolo dal suo torpore. Deve, in altre parole, essere intesa «come vendetta, riscatto e irrisione (2)» per allegorizzare la complessità e l’artificiosità occultata in contrasto all’afasia generale della comunicazione. Su queste posizioni, a nostro avviso, influisce profondamente il pensiero di due teorici, particolarmente cari a tutti i redattori di Baldus (3): Bachtin e Benjamin, a cui devono aggiungersi le suggestioni di Virilio, che esamineremo all’occorrenza.
Il pensiero di Bachtin, come è noto, rompe la nozione statica di progresso letterario rivelando le fratture, i ricorsi e soprattutto i mescolamenti a cui è soggetta la parola letteraria. Sebbene il teorico russo l’abbia applicata alla sfera del romanzo, Bàino in più luoghi ha sostenuto di voler adattare la nozione di polifonia alla sfera poetica: uso del dialetto, plurilinguismo, ricorso a differenti registri, comico e pastiche. L’ibridazione del linguaggio è vista come via primaria per la sopravvivenza della poesia in una realtà come la nostra, letteralmente assediata dai linguaggi della comunicazione di massa. La mescidazione di più codici espressivi consente infatti di rompere la monotonia del linguaggio quotidiano e l’assordamento di quello mediatico, conferendo alla parola poetica una particolare capacità critica. Ma Bachtin è anche l’acuto interprete delle tematiche eversive della cultura popolare: e proprio il suo concetto di “basso-materiale corporeo”, ovvero l’uso dei temi del corpo e del sesso, verrà a più riprese recuperato da Bàino appunto in funzione comica e dissacrante rispetto all’istituzione (4).
La sperimentazione, come accennato, non è mai un gioco fine a sé stesso, ma è retta dal «criterio della tendenza (5)». Se il linguaggio è sempre vettore di un’ideologia, allora la poesia verrà costruita volutamente con la funzione di rimandare all’altro da sé, alla sua eteronomia, al suo rientrare nel conflitto tra le ideologie. In altre parole, il testo poetico deve sempre auto-smascherarsi nella sua parzialità, nella sua artificialità e frammentarietà, nel suo essere inserito in un contesto storico più ampio. Per far ciò, deve lanciare messaggi al lettore che scuotano il suo orizzonte d’attesa univoco e facciano saltare il continuum storico inarticolato. Siamo nell’ottica delle riflessioni di Benjamin attorno all’allegoria. La poesia bainiana esalta sempre la polisemanticità del testo, ovvero il senso è sempre ulteriore rispetto alla lettera del testo e, anzi, emerge proprio a partire da una certa forma di montaggio dei versi che lo compongono. Per Benjamin infatti, tra le tecniche principali utilizzate dallo scrittore allegorico, spiccano innanzitutto quelle del frammento e della citazione. Citare un autore canonico significa strapparlo dal suo orizzonte storico e reinserirlo in un contesto diverso, appunto “straniante”; così come può significare salvare un altro autore dall’oblio storico a cui è stato condannato (6).
Le pratiche stilistiche desunte da Bachtin e Benjamin ben si intrecciano in una definizione metapoetica fornita dallo stesso Bàino:

serve una selezione delle fonti, essere accorti
nel fare i figli stranizzati ibridi creolingui: contamin
montaggiazione con un cuore a crepantiglia eppure attento
a che scomporre frantumare ricomporre (7)


Contaminazione e montaggio, dunque, con il fine di una «praticità vista come
prassi critica, attiva sul duro terreno della demistificazione e dello straniamento (della satira e della parodia). Anche sul versante fruitivo, così come su quello genetico, la contaminazione impedisce al previsto processo di combinazione di farsi gioco combinatorio. L’impurità (l’extratestualità) attiva sugli assi sintagmatico e paradigmatico blocca l’istanza ludico-edonistica, costringendo il lettore non a “giocare”, ma a “mettersi in gioco” (8)».

2. L’influsso delle avanguardie

Camera iperbarica è un testo particolare, non solo perché è l’opera prima di Bàino, ma perché consente di vagliare a fondo la sua formazione letteraria e tracciare una rotta che tocca direttamente le avanguardie storiche (9). Varie sono le strade di sperimentazione adottate in esso: si va dalla poesia lineare (versi sciolti, poemetto in prosa e ricerca intraverbale) alla poesia visiva, passando attraverso le “parole in libertà”. Nel volumetto, come scrive D’Ambrosio nella nota introduttiva, sussiste una «“coesistenza pacifica” di tendenze poetiche molto diverse tra di loro, giustificata anche dalla necessità, per la ricerca poetica più avvertita, di interrogarsi, prima di elaborare nuovi progetti e nuove proposte, su esperienze precedenti di fondamentale importanza. La ricerca di Mariano Bàino, considerando i risultati documentati da questa sua prima raccolta, ci pare sia caratterizzata proprio – una volta rifiutata l’adesione ad un particolare modo di fare poesia [...] –, dalla sua disponibilità ad accettare le suggestioni e ad impegnarsi nell’esercizio di modelli testuali e di tipi di discorso poetico diversi (10)». Possiamo dunque tentare di rintracciarne le diverse linee-guida di ricerca.
Un primo nucleo di testi consta essenzialmente di poesia lineare e in esso vengono ripresi moduli tradizionali della poesia, eppure trattati attraverso una forte allegorizzazione del contenuto. Prendiamo ad esempio il testo introduttivo, decisamente programmatico:

distesa a chiederti il perché del nero
in natura occupi prati periferici
depositi sghembi di poesia
concreta la silfide di un pelo
pubico a svolgere ideogrammi
sfatti da orina strategica
ritirata nel sogno
composizioni di autunni a vela
ripiani smemorati (cercansi)
grafie mature
oltre i trent’anni
angosce (11)


Ciò che rimane alla poesia è un nulla, anzi è il vergognoso esser costretta a utilizzare mezzi di fortuna pur di dire: gli alba pratalia dell'indovinello veronese sono ormai “prati periferici” in cui però s'insinua ancora un'ostinata tensione “strategica” ad insidiare il germe del “sogno”, l'utopia che ormai è di nicchia.
Un secondo nucleo di testi concerne invece il versante visivo. Come accennato, “Camera iperbarica” viene pubblicato nel 1983 da Adriano Spatola, uno dei componenti del gruppo di Malebolge. Questo può essere quantomeno un primo segnale di continuità culturale. Ad attrarre Bàino sono infatti sia le sperimentazioni della “poesia totale” dell’amico Spatola, sia una certa ripresa della poesia in accezione dada-surrealista propria di Corrado Costa ed Emilio Villa. Se però Spatola intendeva la poesia totale – ovvero la creazione artistica svincolata dai dogmi della memoria e della tradizione – come «l’unica maniera di usare positivamente e concretamente, nella direzione di una utopia anarchicamente garantita, quell’esperienza del linguaggio che il poeta è finora abituato a fare come fine a se stessa (12)», per Bàino lo sfondamento sinestetico non ha mai una funzione meramente distruttiva. L’anarchismo che tende a fuggire dalla tradizione non è mai liberatorio, ma rimanda sempre ad altro, ovvero allegorizza un significato politico esterno al circuito linguistico. È la funzione espressiva «al di là del Segno linguistico (13)», per dirla con Di Marco, ovvero l’utopia del Gruppo 93, così distante da quella neoavanguardistica. Quest’ultima infatti aveva l’obiettivo di distruggere definitivamente l’omologazione culturale e linguistica della società borghese, il Gruppo 93 pretende piuttosto ricostruire un minimo terreno comune di comunicazione critica. Alcune delle ultime pagine di Camera iperbarica, ad esempio, presentano dei montaggi fotografici in cui le lettere alfabetiche della parola “mare” vengono ritratte per l’appunto in mezzo al mare, a fondali marini o sulla battigia: i montaggi sono chiosati dalla citazione conclusiva “allegria di naufragi?”. L’intento concettuale è chiaro: la parodia dell’opera ungarettiana diviene allegoria della perdita non solo della funzione simbolica della poesia, ma della stessa possibilità di significare qualcosa attraverso il linguaggio. Il mare come oggetto e il vocabolo “mare” come suo referente linguistico convivono pacificamente nella stessa pagina di un libro. Come a dire che in epoca postmoderna il mondo intero è divenuto testualità e ciò non ha portato ad una liberazione dei linguaggi, ma semmai ad un livellamento di essi e della realtà tutta.
Ma il versante visivo aggredisce anche la poesia lineare e “costringe” il verso a disporsi in maniera inusitata sulla pagina scritta: anche in alcuni testi degli anni Ottanta mai confluiti in volumi si avverte un’insofferenza di Bàino per la tradizionale scansione del verso. È come se la disposizione grafica tenti da un lato di aumentare il potenziale caotico delle citazioni e dall’altro d’influire sullo stesso ritmo del verso, obbligando ad una lettura sui generis:

meandri
birinti
grigionìe
della scura casanza
nel gabbio
che ferma rologi
e decresta i follastri
più ganzi
(qui
la belancia ritta
fa da squarcìna
e scemitarra) (14)

Un terzo nucleo di testi, infine, consta essenzialmente di “parole in libertà”, ovvero testi a cavallo fra sperimentazione visiva e poesia lineare. Se i poeti di Malebolge rimandano principalmente al versante dada-surrealista, sono i poeti di una ideale “scuola napoletana” (da Francesco Cangiullo sino a Stelio Maria Martini e Luciano Caruso) ad influire su Bàino, dirottandolo appunto verso il collage e soprattutto il paroliberismo futurista d’inizio Novecento. Cangiullo, assieme al torinese Giacomo Balla, arriva infatti a una disgregazione vera e propria non solo del tessuto comunicativo della parola, ma della sua stessa esistenza all’interno dell’unico spazio del linguaggio. Ecco allora un testo in cui le lettere diventano segni grafici dotati di una propria semanticità, che compongono un quadretto di carri armati, aerei e cannoni in lotta; ed eccone un altro in cui le parole “Nato” e “Napoli” – dalla forte pregnanza storico-politica – sembrano lottare, azzuffarsi, scontrarsi fino a una vittoria definitiva di “Napoli”, dopo un iniziale predominio di “Nato”, vista come preveggenza utopica. Sebbene Bàino in futuro sceglierà il versante della poesia lineare, rinunciando ai moduli espressivi visivi, l’unità di fondo che ancora regge l’eclettismo della sua poesia è il tentativo di ripristinare la comunicazione di contenuti senza cadere nel contenutismo. Il testo, sia esso fatto di immagini, di lettere in libertà o di versi, ha la tendenza a svincolarsi da un senso univoco e a sottolineare la sua polisemanticità. In altre parole, il «senso fluttuante (15)» prende il sopravvento rispetto alla lettera del testo, che si allarga ad una realtà estranea al mero spazio della poesia. Il fatto che questo elemento concettuale appaia anche nei testi di poesia visiva, suggerisce in qualche modo una tendenza che Bàino probabilmente perfezionerà nelle opere successive.

3. Dialetto e comico linguistico

Dopo l’esordio di “Camera iperbarica”, occorre ripartire la produzione di Bàino in tre fasi: la prima – che arriva fino a “Fax giallo” – incentrata sulla sperimentazione plurilinguistica in tutte le sue forme e sottesa all’intento di creare una nuova forma poetica critica; la seconda, costituita dal solo poema di “Pinocchio (moviole)”, che rinuncia alla battaglia “frontale” contro l’istituzione e tende a ristabilire un canale di comunicazione col lettore; la terza, infine, che recupera le forme chiuse e tradizionali, nel tentativo di salvaguardare uno spazio per la poesia nel magma caotico della società mass-mediatizzata.
Con i testi di “Ônne ‘e terra”, pubblicati successivamente a “Fax giallo” ma composti nel biennio 1988-89, Bàino rinuncia dunque ai moduli visivi e adotta la sperimentazione linguistica su base dialettale. L’opera, divisa in tre sezioni (i frammenti di Vrénzole, il poemetto ‘O ggeniuslò e nove traduzioni poetiche),
viene ripubblicata nel 2003 con la sostanziale modifica del lungo testo centrale.
Perché Bàino ripudia l’anarchismo della poesia totale e introduce la sperimentazione su base dialettale?
Per tentare di trovare una risposta possiamo partire da un luogo molto celebre del poemetto:

(villanella pubblicità)
‘A vocca comm’‘a càucia, ohimé, che croce,
e ‘a lengua comm’‘e vacca lattarola.
‘A coca-cola
dint’‘o cannarone,
e cchiù ‘e nu buttiglione,
vurrìa sentirme scorrere agredoce.
Nu senzo de cetrulo e po’ de noce
cu ‘o llatte de na zizza mammarola.
‘A coca-cola
dint’‘o cannarone,
e cchiù ‘e nu buttiglione,
vurrìa sentirme scorrere agredoce.
D’‘o zuco tuje me faccio portavoce,
assaje cchiù frisco d’‘a vasenicòla.
‘A coca-cola
dint’‘o cannarone,
e cchiù ‘e nu buttiglione,
vurrìa sentirme scorrere agredoce.
‘Nganna e int’‘o naso tu sì cellecosa,
quase comm’‘o ccafè miraculosa!
E sì gassosa
dint’‘o bicchierotto!
Qua’ vino, qua’ chinotto,
si p’‘a cannuccia saglje ‘a Misteriosa?(16)


In questa “villanella-pubblicità” – ripetuta periodicamente nello scorrere del testo – viene appunto recuperata la forma metrica di un «componimento di tradizione napoletana e di grande fortuna tra Quattrocento e Seicento, perlopiù a contenuto campestre e destinato alla musica (17)», ma in chiave dissacrante e disilludente rispetto alla funzione idilliaca e alle proprietà taumaturgiche che gli spot televisivi attribuivano al prodotto in questione. In un intervento teorico del 1987, infatti, Bàino parlava del fallimento di ogni forma letteraria che tenti di mimare gli statuti del linguaggio parlato: «l’esibita neutralità semantica veleggia verso una tranquilla imitazione del linguaggio dei media [...]. Per evitare il rischio che l’agire letterario si riduca ad una pratica consolatoria o, per così dire, autistica, è forse necessario chiamare il lettore a condividere con il poeta una situazione di disagio, innanzitutto linguistico (18)». Contro il dilagare di un linguaggio televisivo forgiato su di un italiano-medio con forti influssi meridionali, Ônne ‘e terra oppone la propria costruzione di una lingua letteraria fortemente dialettale, al punto tale da necessitare di traduzione italiana in calce al testo. Ecco la prima ragione del suo utilizzo: la rivendicazione dell’artificialità della costruzione poetica e dell’antitesi al livellamento linguistico. Il miscuglio tra italiano e dialetto di Bàino, dunque, in quanto lingua iper-letteraria, non può essere considerato come “forza primigenia”, naturalistica, che magari veicoli «una cultura altra e potenzialmente antagonista a quella dominante (19)». Nella società postmoderna non è possibile darsi porti franchi. La Napoli bainiana è una città caleidoscopica e tentacolare, ma che rivela le rovine su cui poggia (20). Siamo ben lontani dalla tradizione pulcinellesca del “vedi Napoli e poi muori”.
Piuttosto, come sottolinea la Martignoni nella prefazione al volumetto: «non è il dialetto napoletano uno qualunque dei molteplici fattori in gioco, bensì è il veicolo portante, la struttura-base, che al suo interno raduna manipola e gradua gli altri fattori (21)».
Ma c’è di più: tale plurilinguismo, intanto determina lo scarto rispetto alla denotazione, in quanto genera un cortocircuito che illumina l’espressività della lingua e dà origine al comico. Scrive Bàino: «da qui, essenzialmente, prende le mosse il comico; da qualcosa, in altre parole, che interferendo con la
denotazione, senza renderla impossibile, fa risaltare in maniera imprevista la ricchezza delle possibilità linguistiche22». Trattare argomenti dotti attraverso un linguaggio basso è già di per sé vettore di comicità. Ma se uniamo ciò alla forte presenza di temi inerenti al corpo, alla materialità e all’erotismo (in una parola: al basso-materiale) ne deriva un sicuro influsso delle teorie bachtiniane fin dalla metà dagli anni Ottanta. Il comico, in altre parole, è visto come ulteriore strumento di dissacrazione dell’uniformità linguistica, ma anche della stessa tradizione poetica, quando essa venga intesa come lirismo:

(oj wanda ecc., tu m’astrigne
‘o significante ùrdemo, faje
c’‘a significanta tôja (sta molla c’‘o respiro) nu juòco
pe’ nun farme trafficà, pe’ nun farte revistà e truvà: nu
juòco allèro, ‘mponta ‘mponta, oj wanda (nu muvimento accussì
a napule se chiamma, ‘o ssaje?, stutacannéla, oj wanda)):
okkèi
è arrapante ‘a vocia tôja ‘mpastata ca legge e liggenno
dice
non è vero che sia napoli il peggior di tutti i mali: okkèi,
ma stutame sulamente, oj wanda gabbriella ecc., oj lalla
wanda ecc. ca faje ‘a filologgia dans le boudoir (me pare),
nu sanguineti/sade, oj wanda-dolmancé, gabbriella-eugénie,
lalla-madame de saint-ange, ma ‘a crudeltà
ca vuje raccummannàte influenza nu poco i piaceri vostri
(me ne so accorto, pecché site dura dint’‘o godimento): (23)


4. Plurilinguismo e distruzione dell’io lirico

Se c’è un punto di contatto tra “Ônne ‘e terra” e “Fax giallo”, questo è proprio l’abbattimento dell’io lirico. Già il soggetto di “‘O ggeniuslò”, ad esempio, era la città (24): la metropoli senza persona che porta in sé i segni della realtà che l’ha trapassata. Non a caso in più luoghi del poemetto Bàino riformula il concetto di “formichizzazione della persona”, ovvero di individuo occultato dalla folla che diventa tutt’uno con la città. In “Fax giallo” invece è la voce di un anonimo strumento tecnologico a parlare: una voce reificata che simula l’odierno processo di ontologizzazione del linguaggio, in cui il soggetto perde il suo ruolo e può solo farsi attraversare dalla comunicazione. Il precedente lavoro sul dialetto, che rappresentava il punto di partenza per cogliere lo specifico genius loci napoletano, deve per forza complicarsi con ulteriori mediazioni linguistiche per «non occultare la babele oggidiana dei linguaggi (25)» e per creare dunque una lingua non irenica. La terza opera di Bàino, in ordine compositivo, è il primo vero e proprio esempio di contaminazione linguistica in cui tutti i codici sono perfettamente mescolati nello straripante flusso poematico, senza predominanza di nessuno. Scrive l’autore in un frammento di dichiarazione poetica:

“Fax giallo” è per me una forma d’interrogazione sugli stravolgimenti, sulle sconnessioni del mondo [...]. L’idea del fax che di continuo irrompe nel flusso di coscienza (ma spesso è difficile per il lettore distinguere la “notizia” dalla, dirò così, produzione interna) risponde alla necessità di alludere alla violenta pressione sul soggetto contemporaneo di tecnologie e di masse d’immaginario che interferiscono con l’io, lo sconcertano, ne insidiano i tentativi di costituirsi come centro. In connessione con queste problematiche il me di allora mi informa di aver tentato di accettare la sfida che la condizione postmoderna sembra lanciare a chi scrive. (26)
Lo scenario della globalizzazione mediatica è inquietante proprio per le ragioni che ha addotto Virilio: la tecnologizzazione onnipervasiva e l’accelerazione che essa ha apportato, comporta non solo la distorsione
percettiva dello spazio-tempo, ma anche la perdita di memoria storica (27). Una voce che voglia denunciare questi fenomeni sembra non essere udibile, al punto che «il senso, per emergere, deve gridare fino ad assordare, o deve assordare fino a farsi gridare (28) ». Non è la pagina cartacea o la lassa a distinguere la
tematizzazione, ma un attraversamento di flussi di notizie “sputati” letteralmente fuori dal fax: ne deriva un calderone della realtà mediatica in cui il lettore è totalmente spiazzato. I fogli ingialliti del fax sono in qualche modo descrizione della realtà d’oggi così com’è, critica nel mentre la si descrive, ma contemporaneamente anche imitazione non mimetica, dunque “realismo allegorico”. “Fax giallo” non descrive il mondo per inserirsi come ulteriore tassello nella sua intelaiatura; piuttosto, descrive il mondo offrendo al lettore una situazione di sostanziale disagio.
Se a un livello sintagmatico il flusso discorsivo procede per scavalcamenti e avvicendamenti progressivi come in un lungo “monologo esteriore”, a un livello paradigmatico è come se la trattazione dei temi dipendesse solo dall’attivazione del fax, sempre imminente e improvvisa. In altre parole, lo spazio del testo non può più coincidere né completamente con l’io, né ovviamente con la realtà: «“Fax giallo”, forse, vuole costituirsi come uno spazio che evita il blocco e la paralisi fra due superfici, di cui una è costituita dalle derive instabili e ambigue della realtà contemporanea, l’altra dalla vigilanza e dal livello di reattività o capacità di opposizione del soggetto (29)». Ne viene fuori un andamento po’ematico che sembra rappresentare «una sorta di collasso delle difese immunitarie contro l’informazione (30)». È l’eclissi della Galassia Gutenberg:

informa
il fax d’un bel balfino nato in vascacquatile di Kioto o To
kio: avrà più dei 2 metri e 9 di papà delfino, ché maman
balena è lunga cinque (e scorcia pinne e zinne ad usum, come dir?,
Balphini): e che tu vada a spigole, se vuoi, in tirrene
mucillagini: la balfigola prole in lunghi corridoi di sottomare
si districhi e diporti, illesa fra i silenti monnezzai profondi,
il cellulòideo occhio ponderante quanto scherma la medusa
(umbrella di mendicante, giostra fosforescente di cavalluzzi
marini), come t’intana la primavera metallizzata dei coralli,
il mucchio d’ostriche (cofano di sputi e perle), quanto si
latita tra l’oloturie (di cenciaiuolo verminosi sacchi),
dietro l’attinia (insanguinato ceppo ove lasciarono capelli
serpini sirene decapitate), in mezzo ai verdi vermi
delle alghe, dietro quel cassettone o nella stanza di là,
sotto il letto dichiscrissedimare...(31)


Nel frammento in questione, la figura bifronte del “balfino” è allegorizzazione della stessa natura della lingua poetica. La testualizzazione della poesia grafica govoniana Il palombaro è un esemplare tipico di recupero citazionistico: in “Fax giallo” ve ne sono numerosi altri, dalla mortificazione della lirica ungarettiana tramite iperbolizzazione («c'è chi s'allamana d'ammansa / s'ellemene d'emmense d'imminsi s'illimini s'ollomono / d'ommonso d'ummunsu s'ullumunu») alla parodizzazione della poesia “Piove” di Montale (già di per sé “riscrittura” della celebre “Pioggia nel pineto” dannunziana). Ciò mostra come la citazione risponda sempre all’esigenza di costruire una linea di ascendenza poetica “altra”, in questo caso riferendosi a un canone eretico rispetto alla tradizione novecentesca dominante.
Il dialetto, il plurilinguismo, il comico, l’eclissi dell’io poetante e la citazione sono tutte strategie della parola poetica – di ascendenza bachtiniana e benjaminiana – messe in pratica per combattere l’omologazione e l’istituzione linguistica. Fino a “Fax giallo”, dunque, vige la radicata convinzione della possibilità di modificare ancora il reale dal suo interno: non a caso nel Gruppo 93 circola sempre più frequentemente la nozione, coniata appunto dal collettivo di Baldus, di “postmodernismo critico”, una posizione laterale che non crede più possibile l’avanguardia ma non vuole soggiacere al postmoderno.
Sei anni dopo, in seguito alla gravità degli avvenimenti storico-culturali degli anni Novanta, questa posizione non sarà più praticabile.

5. Un burattino metapoetico

La metatestualità, che finora abbiamo incontrato in alcuni luoghi dei testi bainiani, in “Pinocchio (moviole)” investe l’intera opera (32). Il poema è una riscrittura a tappe (le “moviole”) del celebre romanzo collodiano, con citazioni provenienti da una moltitudine di autori: da Omero a Dante, da Shakespeare alle riscritture di Manganelli e Bene. Il viaggio di Pinocchio nell’universo globalizzato allegorizza in tutte le sue sfumature la stessa condizione della poesia nel mondo contemporaneo, il suo rapporto con il mercato e con l’ideologia postmodernista.
L’istanza metaletteraria invade prepotentemente il poema già in una delle prime “moviole”, precisamente all’ingresso del teatro dei burattini dove, con lapidaria suggestione dantesca, l’autore avverte:

non ti giovano
qui abbecedari
panni curiali giacciono
sul selciato
[…]
e poi
l’abbecedario ce l’hai già
per arricchirti
in ordine, con ordine
[…]
l’inutile
teatro indispensabile
come il mercante
d’abiti morti, di cose logore
o in sventura, che avanza,
sa di muffa (33)


Vale qui il riferimento alla condizione d’estrema povertà in cui versa la ricerca poetica, che può solo servirsi di materiali di scarto, ma in cui comunque i poeti laureati non sono graditi. Il senso della poesia, un «inutile teatro indispensabile», è di essere ormai ridotto a testimoniare la sua alterità, senza poter più contrastare l’istituzione. A chiosare questa interpretazione interviene la scena successiva, ovvero quella del teatrino dei burattini:

(Mangiafoco) Recito in questo dramma
e il mio ruolo è il principale,
mi vogliono eroe ardente di fiamma,
ma chissà se sono abbastanza plateale…
(rivolto a Pinocchio) Perché
scompigli il mio teatro? le ambigue
parole renderesti non parole?
spareresti su di esse per raggiungere
che c’è tra l’una e l’altra, nelle bianche
tenebre dei fogli? un’esigenza, forse,
da lettore? cosa cerchi tra le mobili
sabbie, le movibili
arene di un lessico zeppo e vuoto
di nomi?
(Pinocchio) Recito in questo dramma
e il mio ruolo è il principale,
mi vogliono eroe ardente di fiamma,
ma chissà se sono abbastanza plateale…
(rivolto a Mangiafuoco) ’Ccellenza
duce guida vate autore,
master d’istrioni y master
di retorica
y aguantador de los desnudos nombres,
mì… poco so de aparencias ché vengo da fora da
piccioli fatti tosterrimi y veri
[…]
(Arlecchino) (con voce incantesimata)
… e d’està… la luna. O
bela, benedeta
che luminando vai, né tenera
né dura, ma chi t’à fato
quel viseto tondo?
[…]
(Mangiafoco) (rivolto a Pinocchio)
Legno da circo, nocchio intarmolito
eppur sentimentoso dei tuoi segni
sogni sugne, con un soffio
che solum è mio potrei di te
fare carne da cànone, il mio cànone
rifare in tua materia ponderabile (34)


Il teatrino è una mise en scéne della lotta per l’egemonia tra differenti ideologie, della quale la stessa poesia è parte. Il rapporto tra Mangiafoco, Pinocchio e Arlecchino è tutto giocato sull’alterità dei significati di cui gli stessi personaggi si fanno latori. Mangiafoco, con i suoi costrutti aulici, minaccia di fagocitare tutto per trasformarlo in «cassapanche o del sapone», dunque in merce. Ma Mangiafoco svela anche l’ideologia del suo lettore modello, che non deve leggere tra le righe, non deve indagare oltre la superficie, perché altrimenti scoprirebbe il nulla («le movibili arene») su cui si basa la propria autorità: in definitiva, questo personaggio allegorizza l’autorità del nuovo canone postmoderno, il canone della mercificazione e dell’ostentata superficialità.
Arlecchino, invece, rappresenta l’intimismo della tradizione che, pur di preservarsi, accetta di ritirarsi nel “suo” dialetto, nella sua lieta ingenuità, nella contemplazione della luna. Pinocchio, piuttosto, rappresenta propriamente l’imprevedibilità della sperimentazione poetica (35): il suo plurilinguismo ibrido si svincola da qualsiasi localizzazione e non è immediatamente interpretabile, eppure rimanda incessantemente a un’alterità. È l’irrefrenabilità del nuovo, del progresso che riappare anche laddove si pensava di averlo esautorato, come dimostrano i versi del coro successivo: «Il vecchio ha natura mendace, dolosa / per il nuovo, per il fresco d’anni (36)».
Ma l’istanza metapoetica si amplifica fino a far entrare in scena lo stesso piano dell’autore, come sfondamento prospettico, negli intermezzi prosastici con funzione spesso ironica e dissacrante:
no è successo che il neocollodi un po’ bazzotto di cervello si è sottratto agli accordi presi con l’editore & anziché concentrarsi sul romanzo nero &d elegante & tutt’altro che didascalico che sarebbe stato il libro di Collodi se questi il burattino di legno l’avesse lasciato al suo tema profondo che è la corsa verso la morte ovvero non l’avesse resuscitato per ragioni più che altro di mercato & così detto tra parentesi avremmo potuto puntare noi nell’oggi al mercato senza nulla togliere all’amore che veramente portiamo per un Collodi più che altro nostro & virtuale un Collodi appunto scrittore inquietante raffinatissimo & libero dal ghetto di scrittore per ragazzi & da concessioni alla morale comune con quel ragazzino bene del finale
inconsequente & rincrescevole del cap. XXXVI37

Viene da chiedersi: cos’è cambiato rispetto a “Fax giallo”? Innanzitutto, gli accadimenti degli anni Novanta (la guerra, il terrorismo internazionale, i fenomeni migratori), hanno spazzato via ogni ipotesi di contraddizione interna: il potere critico di qualsiasi forma di comunicazione eversiva viene immediatamente annullato dai canali di comunicazione ufficiale, che “sponsorizzano” esclusivamente l’istituzione stessa. In secondo luogo, su di un piano più strettamente culturale, gli anni Novanta sono segnati da un’ondata di letteratura postmodernista, che invade e conquista il mercato con il suo flusso incontenibile di prodotti. Bàino ha accettato l’impossibilità di ristabilire un dialogo critico e in “Pinocchio (moviole)” tenta almeno di ristabilire un dialogo tra pubblico e poesia, presentando un “affresco” realisticamente allegorico di questa condizione. Rispetto a “Fax giallo” c’è anche da aggiungere che nella riscrittura collodiana sparisce non solo il soggetto lirico ma addirittura lo stesso autore. Il quale infatti, poco prima che il poema si concluda, dichiara in un intermezzo che il proprio compito è esaurito e lascia che il flusso discorsivo proceda da sé: & qui per prima cosa vi comunico che sono dimissionario sì come si fa col neocollodico? Che ormai lascia incompiuti i pezzi eh proprio allo sbaraglio questi due l’ho capito anche sfogliando certe carte che mi ha mandato non so appunti boh qualcosa in cui Alice & Pinocchio mi sembrano descritti come due mongolfiere capovolte in un mondo ipogeo & sintonizzati con la sensibilità di due amanti che vivono sulla terra […] & circa il neocollodico non se ne sa più nulla l’ultima volta che è stato visto era ad ubriacarsi nelle bettole del porto con un vecchio
marinaio che gli raccontava balle come quella di uno strano essere somigliante a un pezzo di legno dotato di braccia & che nuota per i sette mari senza mai fermarsi & a cui lui ha dato il nome di Crawl & addio io salto giù dal libro che affonda (38) Pinocchio diventerà il nuotatore eterno, il «Crawl movimento continuo», magari retto in futuro «dentro le reti // moltiplicate, dove il mondo scorre ( ) elettronico leggero a spandersi / per linee interservizio ( )». Pinocchio è la poesia stessa, abbandonata al suo gioco di decostruzione e ricostruzione virtualmente illimitato. Altri riscriveranno all’infinito il romanzo di Collodi, così come altri l’hanno fatto prima di “Pinocchio (moviole)”: ecco il motivo per cui Bàino fa eclissare il narratore implicito prima di essere sconfitto nell’impossibile impresa di conferire un senso unico e definitivo al testo. La poesia infatti può solo essere parziale. Ed ecco anche chiarito il senso della “moviola” del titolo, cui accennavamo all’inizio: qualcosa che blocca il sempre-uguale e ne restituisce, per un attimo, la sua parzialità disarmonica e discontinua.

6. Le forme chiuse

Con “Sparigli marsigliesi” si giunge a un’ulteriore svolta nella poetica bainiana: da questo momento sempre più frequente sarà l’adozione di metriche tradizionali o create ex novo, ma rigorosamente in forma chiusa. Lo testimonia la pubblicazione nel solo biennio 2002-2003 dei due volumi poetici di “Sparigli Marsigliesi” e “Amarellimerick”, nonché delle sestine liriche di “Malusìe”, in rivista (39).
Dietro la volontà d’inseguire l’essenza metamorfica del presente si nasconde infatti il rischio di una deflagrazione del linguaggio poetico e di una rarefazione del senso. Bàino preferisce dunque adottare la misura più contenuta della forma chiusa come griglia di protezione che consenta di tutelare uno spazio letterario minimo. Va da sé che la rigidità di questa forma verrà complicata tramite artifici interni, in un rapporto tutto dialettico e non conservativo con la tradizione. Gli “sparigli” constano di ventidue componimenti isomorfi, integrati da un “cartiludio” e da un congedo in versi: ciascun frammento è costituito da otto versi e una terzina con rima fissa. La forma non è rigida in senso metrico ma presenta un congegno (il calembour) che regola l’intera andatura ritmica e sintattica: il verso è libero ma, grazie alle suggestioni allitterative della paronomasia e all’utilizzo frequente di enjambments e tmesi, si percepisce un senso di flusso progressivo e avvolgente. È come se la forma chiusa degli otto versi (che terminano sempre con punti sospensivi) servisse ad arginare una semiosi altrimenti illimitata. Lingua italiana e dialetto napoletano s’intrecciano in una mistura in cui «la parola, presa nella catena infinita degli echi e delle assonanze, si spoglia progressivamente di senso e rotola impazzita nella béance caprioleggiante, apparentemente spensierata, della propria spudoratissima materialità (40)». Le terzine conclusive, infine, sempre in funzione critico-ironica, aggiungono la presenza di una soggettività “altra” e complicano il potenziale semantico: l’orizzonte d’attesa del lettore, preparato a una lettura comoda, ne risulta sconquassato.
Cortellessa rileva un dato fondamentale, indicativo anche per “Amarellimerick”: la presenza del mot-valise, della parola che ospita al suo interno un’altra parola, sottoforma di tmèsi nel penultimo verso delle terzine dei componimenti. È proprio il mot-valise che restituisce, con il suo straniamento, il senso del rimando all’“altro” dal testo. Così, quando nella terzina del componimento sull’Imperatore Bàino scrive:

della carta il senso è: fermo volere...
pe’ sempre vieta d’‘o cacio, con le perequazioni
annesse, ai cafoni di sapere (41)


vuole descrivere non soltanto il carattere autoritario della generica figura imperiale, ma anche ironizzare e dissacrare la sua funzione tutta immersa negli intrighi per giungere al potere e detenerlo a scapito dei deboli. Si giunge dunque a una critica del potere tout court e contemporaneamente a tutta la tradizionale iconografia di esso: la negazione del “cacio con le pere” del detto popolare diventa negazione delle “perequazioni” appannaggio dei soli potenti. La potenza archetipica dei tarocchi viene smascherata nella sua ideologia che rispecchia appunto le gerarchie sociali consolidate, in cui quella cultura (quella cartomantica dei tarocchi) è nata, magari poi perdendosi nella tradizione e divenendo gioco popolare (eppure conservando inconsapevolmente la sua funzione di vettore ideologico d’uno status quo). Il tutto al fine di «contraddire nel modo più violento una pratica linguistica inaccettabile – espressione di una società altrettanto inaccettabile. Le contraddizioni, gli ossimori, l’intrico e l’intrigo della degradata realtà napoletana di oggi [...] si scoprono a sorpresa fissate e segnate a dito, nel jeux de cartes apparentemente svagato e noncurante (42)». L’ambivalenza del significato è tra l’altro già annunciata nel titolo: tarocchi marsigliesi, ma oggetto di “spariglio” (sinonimo, nel gioco dello scopone, di un errore che non consente al cartaro di conquistare
matematicamente i punti principali).
Il mot-valise verrà incastonato, nella successiva raccolta poetica, in una forma ancora più ardua da elaborare: la novità di “Amarellimerick” infatti, come ricorda Remo Ceserani nell’introduzione, è proprio l’introduzione del mot-valise che aggiunge «sistematicamente, con un guadagno nella moltiplicazione dei sensi, una specie di senso biforcuto, biforico e bifronte, a due piazze (43)». Accanto a questo artificio, Bàino utilizza ampiamente anche quello delle parole-sandwich – l’inserzione di una parola tra le due altre di un vocabolo composto – ancor più cariche di polisenso. Il limerick, così com’è stato tradizionalmente codificato da Edward Lear nell’Ottocento, ha come oggetto il non-senso, in un gioioso gioco di significanti. Ma Bàino ha presente soprattutto l’esempio novecentesco di Gianni Rodari, concentrato sul “far sbattere” assieme due aree semantiche molto distanti tra loro, generando umorismo più che semplice non-sense.
Per comodità di lettura possiamo suddividere gli ottantotto componimenti in una serie di categorie. La prima categoria include i limericknon-sense, costruiti a partire da rimandi interni ossia da un confronto tra i versi:

Un giovane entomologo a Percalle
andava per la scienza un po’ a farfalle.
Sentendo infame l’uso di spillino
lasciava un grande buco nel retino,
il lepidotteretico a Percalle. (44)


Qui appunto il significato è tutto giocato sul doppio senso dell’espressione “andare a farfalle”. Eppure si intravede anche una dissacrazione filosofica della scienza e dello scientismo. Questa critica allegorica sarà molto più frequente – ed è questa la novità dei limerick
Un buon postino a San Giuseppe Iato
le sue due volte aveva già bussato.
Bussò ancora, e fra sé disse:
“Non verrà l’apocalisse!”,
il letteràteo a San Giuseppe Iato.(45)


dove appunto la citazione del titolo del romanzo “Il postino bussa sempre due volte” di James Cain – divenuta poi luogo comune nel gergo quotidiano grazie a due trasposizioni cinematografiche – amplifica il suo senso fino a chiamare in causa l’Apocalisse di Giovanni e il suono delle tre trombe angeliche che ne annunceranno l’esordio. Ma frequenti saranno anche i rimandi ad avvenimenti storici o di cronaca spicciola. Ne possiamo ricavare che: il gioco di parole (nonsense e calembour) del limerick è dato da soli rimandi infratestuali; il senso allegorico invece è dato da rimandi infratestuali più rimandi extratestuali (ovvero: cronaca, proverbi, luoghi comuni, citazioni erudite e letterarie, concezioni filosofiche).
Nei limericks bainiani, ci sembra di ritrovare la stessa distinzione evidenziata da Freud nel suo saggio “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio” (46) tra motti innocenti (basati sul gioco puramente verbale di significanti) e tendenziosi (attraverso cui si scaricano con sollievo i contenuti sociali rimossi, aggirandone la censura). Il caso-limite per Freud è quello del motto scettico, ovvero in ribellione contro la stessa razionalità da cui è generato: questo è uno tra i più alti generi di motti di spirito, «sufficientemente diversi dagli altri per riservare loro un posto particolare. Essi non assalgono una persona o una istituzione, ma la sicurezza della nostra conoscenza stessa, uno dei nostri beni speculativi47». Tra i limericks di Bàino, i più alti ci sembrano proprio quelli che esprimono un’idea critica sulla natura sociale del logos borghese, che per il suo potere di modificazione del reale sembra divenire l’unica forma di razionalità e di conoscenza possibile, quasi una seconda natura:

Bambini d’ogni tinta, d’ogni razza,
giocarono “agli anarchici” in terrazza.
Nel giro di mezz’ora, oh l’allegria!,
giocavano inquadrati “a gerarchia”,
gl’infanti fisiocratici di razza.(48)


È qui in discussione proprio l’assetto sociale, o meglio la natura umana così come viene a formarsi nella società, al limite estremo in cui l’educazione e l’imprinting del neonato toccano la genetica, la biologia, quasi che l’homo homini lupus sia inscritto nel codice genetico. Ci troviamo dunque di fronte a una critica dell’ideologia, a tratti addirittura nichilistica nei confronti dell’esistente:

Un ottico assai vecchio a Casapulla
torniva lenti adatte per il nulla.
Spiegava, in un’insegna d’ametista:
“Occhiali non si vendono da svista”,
quel gran disillulente a Casapulla. (49)


Un paio di occhiali non stranierà lo sguardo sul mondo esterno: non c’è nulla da straniare se la realtà corrisponde, in realtà, al nulla e la costruzione sovrastrutturale risponde solo all’horror vacui, alla paura della morte.

7. Qualche appunto sulle sestine: conclusioni

La tradizione della sestina italiana, come è noto, fa tutt’uno con la tradizione petrarchista, fatta eccezione per il Novecento, che vedrà nascere diversi tentativi – pochi, in verità – di deviare dal binario consolidato. Con le due sestine liriche di “Malusìe” (50) anche Bàino cerca di inserirsi in una diversa diacronia storica, utilizzando soprattutto l’esempio di D’Annunzio e quello di Ungaretti. Già i due titoli riecheggiano la celebre sestina ungarettiana della “Terra promessa”: il “Recitativo di Palinuro” che, nelle intenzioni dello stesso autore, si costruisce come componimento di tono narrativo che racchiude il senso della «vanità di tutto, sforzi, allettamenti: di tutto che dipenda dalla misera terrena vicenda storica dell’uomo (51)». Le sestine bainiane infatti hanno un’andatura tutta narrativa e incentrata sul tema della «vita che è male, interrogazione senza risposta esterna, risolta tutta nell’amaro della riflessione intima52», come nota Cecilia Bello Minciacchi. Bàino tenta anche un gioco di complicazione della già complessa impalcatura sintattica della sestina, ispirandosi probabilmente al “Poema paradisiaco” dannunziano, in cui accanto alla retrogradatio cruciata si sperimenta la ripetizione di interi sintagmi all’interno dei versi conferendo al componimento un movimento elicoidale ed avvolgente.
Ma la vera innovazione che Bàino apporta nella storia di questa forma poetica è indubbiamente l’abbassamento stilistico, “sporcato” dalla mistura tra un registro lirico italiano e un registro dialettale napoletano, dagli enjambments e dai calembours, addirittura nella parola-rima:

L’aggi’‘a fa’ cchiù pesante ‘sta tariffa,
si voglio accattà’ carne e no sul’ erba,
ca nu’ stò’ ferma mai, nessuna notte,
comme ‘na salamandra dentro un fuoco
d’inferno, e senz’‘a pioggia del messia:
me vedo, morta!, sotto i copertoni.
Serpenti arrotolati, i copertoni!
Ca saglje o scénne, acconcia la tariffa!,
e puortate ‘int’‘a capa il bel messia
e ‘a vota sola di noi due nell’erba,
‘a faccia mia avvampata, fatta ‘e fuoco;
schiarirono le stelle in poca notte.
Tu sei nei copertoni e nella notte,
tariffa onesta è amarti, mio messia,
pecché i’ so’ ll’erba, tu si ssacro fuoco.(53)


“Malusìe” segna l’ultimo tentativo dell’autore di dar vita a un ampio progetto poetico: le due sestine infatti, assieme a un terzo frammento intitolato “Morte del cronista”, dovrebbero costituire il preambolo di un poema tutt’oggi non ancora realizzato. Dietro l’incompiutezza del progetto cova probabilmente una testimonianza della difficoltà – e forse dell’inutilità – di «dare forma all’informe» contemporaneo. In effetti, nell’ultimo recente volume di Bàino, “Le anatre di ghiaccio”, per la prima volta si rinuncia alla strutturazione di un poema o di una raccolta coerente e nei diversi capitoli vengono ammassati materiali diversissimi tra loro, a mo’ di “zibaldino”: prende il sopravvento la forma aforistica in prosa e alla poesia resta pochissimo spazio. Sembra che l’autore, dopo più d’un ventennio di attività poetica, abbia deciso di spostarsi verso altri modi di scrittura che offrano ancora possibilità al discorso.
La poesia di Bàino in effetti si inserisce nella storia della grande sperimentazione del secondo Novecento: a partire da una ricerca incessante della contraddizione e della novità modernista, attraverso la sperimentazione di tecniche e forme, la poesia si spinge oltre i limiti della dicibilità in versi, fino al punto in cui la sua forma non ha più modo d’essere nel magma della prosasticità del linguaggio contemporaneo. Ma in questo modo, allegorizza ancora un’ultima volta le difficoltà dell’ampia progettualità nell’orizzonte postmoderno. O forse, dovremmo dire: nell’orizzonte post-postmoderno.






NOTE:
1 Mariano Bàino, “Editoriale”, «Baldus», 0, 1990.
2 AA.VV., “Gruppo ’93. La recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia”, a cura di Filippo Bettini e Francesco Muzzioli, Lecce, Manni, 1990, p. 123.
3 «La nuova costellazione problematica che abbiamo iniziato a tracciare comprende un orizzonte di interazione tra autori e questioni anche distanti tra loro: ai suggerimenti e alla rilettura di Bachtin, Benjamin, Lotman, associamo le indicazioni provenienti da Virilio, Ong, Belting, Morin, Jameson» (AA.VV., “Relazione Baldus” al convegno “Il Gruppo 93 e le tendenze attuali della poesia e della narrativa”, in «Baldus», 2, 1992).
4 Per la nozione di “polifonia” si rimanda in particolare a: Michail Bachtin, “La parola nel romanzo”, in “Estetica e romanzo”, Torino, Einaudi, 1997, pp. 67-230. Per il concetto di “basso-materiale corporeo”, invece, si rimanda a:
Michail Bachtin, “L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale”, Torino, Einaudi, 1995, pp. 405-80.
5 AA.VV., “Appunti”, in «Baldus», 0, 1990.
6 Per il concetto di “polisemanticità” si rimanda a: Galvano della Volpe, “Critica del gusto”, in “Opere”, a cura di Ignazio Ambrogio, vol. VI, Roma, Editori Riuniti, 1973. Per le nozioni di allegoria e citazione, si rimanda in particolare a: Walter Benjamin, “Il dramma barocco tedesco”, Torino, Einaudi, 1999 e “Tesi di filosofia della storia”, in “Angelus Novus”, Torino, Einaudi, 1995.
7 Mariano Bàino, “Quatre-vingt-treize”, in AA.VV., “Gruppo 93. Le tendenze attuali della poesia e della narrativa”, a cura di Anna Grazia D’Oria, Lecce, Manni, 1992, p. 94.
8 Antonio Paghi, “Il disagio del testo. Quattro letture di poesia di ricerca”, in «Baldus», 3-4, 1994.
9 Le pubblicazioni di Bàino, in ordine cronologico, sono: “Camera iperbarica”, Montecchio Emilia, Tam Tam, 1983; “Fax giallo”, Nola, Stamperia d’arte “Il laboratorio”, 1993 (II ed., Rapallo, Zona, 2001); “Ônne ‘e terra” (terra con onde), Napoli, Pironti, 1994 (II ed., Arezzo, Zona, 2003); Pinocchio (moviole), Lecce, Manni, 2000; “Amarellimerick”, Napoli, Oèdipus, 2003; “Sparigli marsigliesi (passar d’imago in mago tra i tarocchi)”, Nola, Stamperia d’arte “Il laboratorio”, 2002 (II ed., Napoli, Edizioni D’If, 2003); “Le anatre di ghiaccio”, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004.
10 Matteo D’Ambrosio, “Introduzione”, in Mariano Bàino, “Camera iperbarica”, cit., pp. 5-7.
11 Ivi, p. 9.
12 Adriano Spatola, “Poesia apoesia e poesia totale”, in “Gruppo 63. Critica e teoria”, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Torino, Testo & immagine, 2003, p. 103.
13 Roberto Di Marco, “Oltre la letteratura”, Padova, GB, 1986, p. 9.
14 Mariano Bàino, “Rabeschi”, in AA.VV., “I° quaderno di Invarianti”, Roma, Pellicani, 1989.
15 Jurij Tynjanov, “Il problema del linguaggio poetico”, Milano, il Saggiatore, 1981, pp. 75-80.
16 Mariano Bàino, “Ônne ‘e terra”, cit.
17 Clelia Martignoni, “Prefazione”, in Mariano Bàino, Ônne ‘e terra, cit., p. 16.
18 Mariano Bàino, “Di “trasparenza”, di ricerca, d’altro”, in «Altri termini», 6-7-8, 1986-1987.
19 Roberta Moscarelli, “Lo cunto de la voce”, Napoli, Terra del fuoco, 1999, pp. 76-7.
20 Pietro Sarzana, “Napoli e le città del mondo nella poesia di Mariano Bàino”, «Studi novecenteschi», 49, 1995.
21 Clelia Martignoni, “Prefazione”, cit., p. 8.
22 Mariano Bàino, “Di “trasparenza”, di ricerca”, d’altro, cit.
23 Mariano Bàino, “Ônne ‘e terra”, cit. Per l’esame delle varianti si rimanda alla prefazione della seconda edizione, in cui Clelia Martignoni nota come le asciugature e i tagli interni sacrifichino «un certo giocoso e sfrenato edonismo
immaginativo-linguistico, a favore di un taglio più asciutto e forse anche complessivamente più amaro»
(Clelia Martignoni, “Il viaggio testuale di Mariano Bàino”. (“Per il secondo Ônne ‘e terra”), in Mariano Bàino, “Ônne ‘e terra”, II ed., cit., p. 85). L’atteggiamento ironico e carnevalesco in senso bachtiniano pare restringersi e contrarsi assieme all’erotismo esplicito, in funzione sia di una maggior disillusione sulla realtà tutta (e la napoletanità) che di una maggior musicalità. Le potenzialità stranianti del dialetto restano inalterate, ma è chiaro che Bàino
è molto più pessimista riguardo al potere critico della poesia tout court.
24 Il tema della città e soprattutto della città di Napoli è molto caro a Bàino, che ne tratta in più di un’occasione: basti ricordare i componimenti “Città per nomadi” (pubblicato nell’antologia “Le lingue di Napoli”, Napoli, Cronopio,
1994 e ora in “Le anatre di ghiaccio” cit.) e “Serata Nerval” (in «Lo straniero», 3, 1998). A questo proposito, si legga l’articolo di Pietro Sarzana, “Napoli e le città del mondo nella poesia di Mariano Bàino”, cit.
25 Mariano Bàino, “Risposte al “Questionario per i poeti in dialetto”, in «Diverse lingue», 14, 1995.
26 Mariano Bàino, “Dichiarazione di poetica”, 2000, http://www.cirps.it/risorse/poesia/autori/fsBàino.htm.
27 Si leggano soprattutto: Paul Virilio, “Estetica della sparizione”, Napoli, Liguori, 1992 e “Lo spazio critico”, Bari, Dedalo, 1998.
28 Gabriele Frasca, “Collideoscopio”, in Mariano Bàino, “Fax giallo” cit., p. 26.
29 Ivi.
30 Ivi, pp. 31-2.
31 Mariano Bàino, “Fax giallo” cit.
32 La metatestualità esplicita emerge macrotestualmente solo in “Pinocchio (moviole)”, ma molti significativi passaggi metapoetici si trovano a partire da “Camera iperbarica” e in diversi testi pubblicati su rivista. Oltre al già
citato “Quatre-vingt-treize”, un componimetno significativo è “Testo e metodo di Tristan Tzara”, realizzato con citazioni dal manifesto dadaista “Sur l’amour faible et l’amour amer” seguendo il metodo suggerito dal manifesto stesso: ritagliare le parole di un articolo, mescolarle in un sacco, poi prenderle a caso e disporle in successione in questo nuovo ordine (il testo è pubblicato in «Dismisura», 63-66, 1983).
33 Mariano Bàino, “Pinocchio (moviole)”, cit.
34 Ivi.
35 La nozione è di Leonetti, che tra l’altro redige la prefazione al libro. Si rimanda a: Francesco Leonetti, “L’esperienza – il Sé – e l’invenzione (sul rapporto del linguaggio con le cose)”, in «Campo», 6-7, 1993.
36 Mariano Bàino, “Pinocchio (moviole)”, cit.
37 Ivi.
38 Ivi.
39 A questi testi seguirà anche il lungo capitolo dedicato alla forma dell’haiku ne “Le anatre di ghiaccio” cit.
40 Andrea Cortellessa, “Una ventiquattrore per Mariano Bàino”, in Mariano Bàino, “Sparigli marsigliesi (passar d’imago in mago tra i tarocchi)”, cit., p. 53.
41 Mariano Bàino, “Sparigli marsigliesi”, cit.
42 Andrea Cortellessa, “Una ventiquattrore per Mariano Bàino”, cit., p. 61.
43 Remo Ceserani, Prefazione, in Mariano Bàino, “Amarellimerick”, cit., pp. 10-1.
44 Mariano Bàino, “Amarellimerick” cit.
45 Ivi.
46 Sigmund Freud, “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio”, in Opere, vol. V, Torino, Bollati
Boringhieri, 1999.
47 Ivi, p. 103.
48 Mariano Bàino, “Amarellimerick” cit.
49 Ivi.
50 Le due sestine in questione sono: “Recitativo del soldato” e “Recitativo di Maddalena” (in Mariano Bàino, Da “Malusìe”, in «Avanguardia», 19, 2002).
51 Giuseppe Ungaretti e Ariodante Marianni (a cura di), “Note a La Terra Promessa”, in Giuseppe Ungaretti, “Vita d’un uomo. Tutte le poesie”, Milano, Mondadori, 2004, p. 567.
52 Cecilia Bello Minciacchi, “Poesia per nomadi. Su alcuni inediti di Mariano Bàino”, in «Avanguardia», 19,
2002, p. 16.
53 Mariano Bàino, “Da Malusìe”, cit.







BIBL.

“Camera iperbarica”, Montecchio Emilia, Tam Tam, 1983;
“Fax giallo”, Nola, Stamperia d’arte “Il laboratorio”, 1993 (II ed., Rapallo, Zona, 2001);
“Ônne ‘e terra” (terra con onde), Napoli, Pironti, 1994 (II ed., Arezzo, Zona, 2003);
Pinocchio (moviole), Lecce, Manni, 2000;
“Amarellimerick”, Napoli, Oèdipus, 2003;
“Sparigli marsigliesi (passar d’imago in mago tra i tarocchi)”, Nola, Stamperia d’arte “Il laboratorio”, 2002 (II ed., Napoli, Edizioni D’If, 2003);
“Le anatre di ghiaccio”, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004.

Mariano Bàino è nato a Napoli nel 1953, dove vive e lavora. È stato tra i fondatori, nei primi anni ’90, della rivista “Baldus” e del Gruppo 93, che hanno animato in Italia un complesso dibattito su moderno e postmoderno, avanguardia e tradizione, e, più in generale, sul mutare delle strutture comunicative e sugli effetti di derealizzazione nella società massmediale. Nella sua poesia si incontrano pluristilismo, apertura ai dialetti e alle lingue straniere, uso straniante della... mariano-baino-1