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04/04/2011

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Tahar Bekri
Poeta tunisino molto presente nel campo culturale magrebino, tradotto in numerose lingue, è uno dei grandi poeti del mondo.
Tahar Bekri. "Una scrittura in silenzio"


Benaouda Lebdai

Tahar Bekri è un poeta tunisino molto presente nel campo culturale magrebino, tradotto in numerose lingue, è uno dei grandi poeti del mondo.

La poesia, sempre la poesia; quale è la sorgente di questo estremo interesse?

La poesia attraversa tutto ciò che scrivo, anche i miei lavori universitari. Mi abita dalla prima infanzia da quando è scomparsa mia madre nel palmeto natale nel sud tunisino. Ciò ha sigillato il mio rapporto al mondo, all’umanità, alla natura, alle domande metafisiche che l’uomo non ha cessato di porsi: la vita, l’amore, la morte. Abito la poesia come una casa spalancata sull’infinito, piena anche dell’interiorità delle cose, dell’emozione, dell’attenzione agli altri, dell’amore che nutre la linfa dei giorni, del rigetto di ciò che chiude le porte e le finestre: intolleranza, fanatismo, violenza… La mia casa non ha torre di avorio né di fiori di narciso, la porto ai quattro venti, incollata alle suole, coltivo il dovere di bellezza, dipingo il viso umano, la condizione umana. La poesia corrisponde alla mia sensibilità. Sono un uomo del silenzio. La poesia è una scrittura in silenzio, una parola che va diritto all’essenziale, e fa l’economia del verbo. Per esempio, non amo molto la poesia narrativa, (degli anglosassoni), troppo descrittiva o utilizzante la lingua come sua propria finalità. La poesia mi permette di esprimere dapprima mio essere, le mie emozioni, nel reale e nell’immaginario, ma anche una visione filosofica, un modo di essere al mondo, senza essere troppo cerebrale, senza pesantezza intellettuale. La considero come un’arte maggiore, come la musica o la pittura.

La sua penna fluida e immaginosa è influenzata dalla lingua araba in cui lei eccelle?

Esatto, l’immagine è molto presente in ciò che scrivo. La metafora mi sembra caratterizzare la poesia molto più che la prosa. Mi allontana dalla ridondanza, della parola impoverita, compromessa, e in ciò crea altri livelli per il lettore, fa appello alla sua immaginazione. Sono nutrito di cultura araba antica e moderno dalla mia scolarità primo e scrivo in francese e in arabo. Detto questo, la parola immaginosa, il senso figurato, l’allusione indiretta, appartiene anche alla cultura popolare, alla poesia orale, araba, berbera. La scrittura ricupera questo ascolto, gli dà un’altra ampiezza, ancora più universale.

C’è un sforzo di scrittura dietro o tutto cola dalla sorgente?

Veramente, sono mobilitato, costantemente, preso da un’emozione, un’idea. Ho con me dei piccoli taccuini dove scrivo, nell’autobus, in treno, in aereo, su una panchina pubblica, eccetera. Non c’è orario per questo né luogo d’elezione. Scrivo con una stilografica. È la prima stesura di getto. Sono contrariato quando esco da casa senza penna. Poi lavoro al computer. Riprendo ciò che ho scritto. La scrittura è un lavoro, una passione esigente. Come ogni passione, è in lotta con le parole, contro le parole, talvolta, fino alla stanchezza. Talvolta, ci sono dei momenti di grazia e si è ricompensati per le sue pene. La scrittura consiste nello spogliare il testo di ciò che l’appesantisce, nell’epurare lo stile, nello sbarazzarlo dalle fioriture, e nell’andare all’essenziale. Non ci sono regole pronte, è un ricerca permanente, ma ciò che trovo non deve uccidere il senso, privilegiando la forma. Ogni poesia è una nuova avventura.

Si nasce poeta o lo si diventa?

Il parola poeta in arabo si dice semplicemente "Sha’ir", colui che prova, che ha dei sentimenti…Io non so se si nasca poeta o se lo si diventa, ma so che ho sempre sentito questo bisogno, appena ho acquisito la scrittura. Dopo c’è l’apprendistato, l’applicazione, il lavoro del poeta, la frequentazione della poesia, riscrivo spesso i miei testi; è la sperimentazione che ci fa rivelare la scrittura.

Qual è il suo rapporto al lingua francese?

Io sono il frutto della scuola tunisina franco-araba, una scuola bilingue post-coloniale. Ho cominciato la mia scolarità con l’indipendenza nel 1956. Non ho mai considerato la lingua francese come un attentato alla mia identità o una minaccia al mio equilibrio, o ancora meno un esilio, secondo l’espressione di Malek Haddad. La lingua francese in Tunisia è stata introdotta nel 1840, molto prima della colonizzazione, in un soprassalto di modernità e di apertura verso le lingue straniere da parte del sovrano Ahmed Bey, e questo per evitare la sorte riservata all’Algeria, ovvero la sua colonizzazione nel 1830. Poi, c’è stata la creazione del Collegio Sadiki (collegio bilingue) nel 1875 del grande riformatore Khaireddine Bacha. Questa situazione bilingue, prima della colonizzazione e dopo, ha fatto sì che ho sempre avuto un rapporto tranquillo col francese come lingua acquisita nella quale mi esprimo liberamente. Non mi sento neanche privato dell’arabo e mi considero fortunato di potere utilizzare due lingue. Detto questo, ogni poeta o scrittore, ambisce di avere la propria lingua. Penso che gli autori stranieri apportino molto alla lingua francese che del resto frutta a loro molto bene. L’arabo è una lingua magnifica, il berbero anche, suppongo, e sono felice di potere utilizzare il francese, senza complessi né disagio. Non utilizzo il francese come un bottino di guerra, secondo l’espressione di Kateb Yacine o come un’arma nella “guerriglia linguistica”, come l’ha fatto la rivista marocchinia Souffles, ma come una possibilità supplementare di dire mio essere, il mio universo, la mia visione delle cose.

Un tema forte nella sua opera: il tempo che passa, la nostalgia…

Sono alcuni temi, tra gli altri, che abitano l’esilio, ciò che manca, ciò che è lontano, l’assenza, le persone che ci mancano… I ricordi (da qui Il libro del ricordo, Ed. Elyzad) sono come i punti riferimento, le pietre miliari di una vita, i lampioni per illuminare la strada invasa dalla notte che ci spia. Senza passato, non posso definire il mio presente.

Si avverte in lei una sorta di fascino riguardo l’Algeria e i suoi autori.

Da bambino ascoltavo l’inno nazionale algerino sulle onde tunisine. Avevo sette anni quando il villaggio tunisino di Sakiet Sidi Youssef fu bombardato per punire i tunisini per la loro solidarietà con gli algerini. Da adolescente ascoltavo i programmi radiofonici Abdelhamid Benhadougga della Radio nazionale. Da liceale ho letto, dapprima in arabo, in una bellissima traduzione di Salah Garmadi, il romanzo Io ti offrirò una gazzella di Malek Haddad. Poi, studente a Tunisi, ho letto tutto ciò che ho potuto di Kateb, Dib, Feraoun, Mammeri, Ouattar, Boudjedra…Più tardi ho fatto amicizia con numerosi scrittori algerini. Ho sostenuto una tesi dedicata all’opera di Malek Haddad senza incontrarlo mai. Ho sempre considerato come mia la realtà algerina e magrebina. Non si tratta di fascino ma di una coscienza acuta della sorte e del destino comuni. Ciò che l’Algeria vive come violenza non mi lascia mai indifferente.

È stato sconvolto dall’assassinio di Tahar Djaout…

Più che sconvolto. Ero molto legato a Tahar e avevo portato dell’Algeria, come "un portaborse", il suo manoscritto La Guardia notturna alle Editions du Seuil. L’islamismo oscurantista che ha ucciso Abdelkader Alloula, Youssef Sebti e tanti altri, è una dannazione per le nostre società magrebine come per l’insieme del mondo musulmano in cui si è attentato alla vita di Naguib Mahfouz, si è assassinato Faraj Fouda e si minaccia Nawal Saadawi, Taslima Nasreen… Questi omicidi radicali commettono crimini in nome dell’Islam, come la setta degli assassini nel Medioevo. In fondo, distruggono l’Islam stesso che non è mai stato così macchiato di sangue. Ci si chiede da dove provenga tutto il denaro per fare funzionare un tale macchina satanica? È tempo di rivedere i programmi scolastici. Ancora prima bisogna trovare gli insegnanti formati per questo. Certi programmi in Algeria, come ho avuto l’occasione di leggere, meritano di essere rifatti d’emergenza. Sono rimasto stupefatto un giorno quando uno dei miei studenti, arrivato recentemente dell’Algeria, mi ha chiesto: "per andare al paradiso è meglio: morire sunnita o sciita?"
Coraggiosamente, i Tunisini hanno operato alcune riforme nel loro insegnamento, modernizzato i loro programmi di storia, di istruzione religiosa, di filosofia, di diritto… La riforma dell’insegnamento è imperativa per sventare i progetti nefasti degli oscurantisti. L’insegnamento per il progresso, certamente, ma anche lo sviluppo economico e sociale equo è necessario per farla finita con l’ignoranza barbara.

Attualmente, quali sono i suoi progetti?

La mia nuova raccolta I detti del fiume sta per uscire da Al Manar. Si tratta di una metafora sul poeta e il mondo. Preparo anche un lavoro che raccoglie alcuni testi dedicati alle letterature del Magreb e dell’Africa nera. Il poema “Afghanistan”, un brano del mio libro Se la musica deve morire, è stato tradotto in una quindicina di lingue. Vorrei riunirli in un stesso lavoro. Questo progetto mi sta a cuore. Sono previsti alcuni viaggi per gli incontri poetici e letterari: Spagna, Tunisia, Benin, Belgio, Columbia… Il vero luogo del poeta, diceva il rimpianto Mahmoud Darwich, è la poesia che si sente rinchiusa in un luogo…


(5.10.2009)
da: Transfinito. International magazine.
Testo pubblicato sul giornale algerino El Watan del 20 novembre 2008. Per gentile concessione
Traduzione dal francese di Giancarlo Calciolari
Tahar Bekri è nato nel 1951 a Gabès in Tunisia. Vive a Parigi dal 1976. Scrive in francese e in arabo. Ha pubblicato una ventina di opere (poesia, saggi, libri d’arte). La sua poesia, accolta con favore dalla critica, è tradotta in varie lingue (russo, inglese, italiano, spagnolo, turco, etc). La sua opera, segnata dall’esilio e dall’erranza, evoca attraversamenti di tempo e di spazio continuamente reinventati. Parola interiore, radicata nella memoria, alla ricerca di orizzonti nuovi,... tahar-bekri-2