GIUSEPPE CONTE, FARE POESIA SENZA PAURA
Intervista di Francesco Napoli a Casa della poesia
Giuseppe Conte, classe 1945, è uno dei poeti che negli anni Settanta, a cominciare dal suo L’ultimo aprile bianco, ha impresso una svolta nella poesia italiana, rinnovandola dal profondo e consegnandola all’attuale topografia.
Di recente lei ha avuto un incontro di poesia a Gerusalemme. Che aria si respira su un fronte così caldo?
Due impressioni distinte: una sera ho parlato con poeti israeliani, poco conosciuti nel circuito internazionale, e ho trovato in loro un radicamento alla Bibbia che non immaginavo e che mi ha molto colpito. Non ho invece trovato alcuno spirito di violenza o di guerra. Il giorno dopo ho incontrato invece i poeti arabo-palestinesi che vivono nei confini politici di Israele. Loro si sono lamentati di un aggressione non soltanto israeliana ma occidentale in generale. Ma l’impressione è che la poesia, israeliana e araba, sia ancora in grado di affratellare le persone. Tornando però all’aereoporto ho visto il muro: leggerne o scorgerlo nelle immagini televisive è un conto; osservare come separa per chilometri i territori dà uno sgomento terribile.
Nel suo fare, non solo poetico, ha sempre cercato di mettere insieme due mondi: quello occidentale e quello orientale, riscoprendo e andando a leggere miti e autori lontani dalla tradizione occidentale.
A un certo punto della mia formazione ho avvertito la necessità di aprire verso oriente, orizzonti extraeuropei poco battuti. Sentivo un’esigenza forte di uscire da una crisi creativa e spirituale della nostra società andando a cercare delle fonti altre ma amo la tradizione occidentale e italiana dalla quale provengo e la sua lingua dove ho il mio radicamento vero. Dobbiamo però saper cogliere anche da altri mondi e culture quelle energie spirituali mancanti in un occidente ormai insterilito e metterle in relazione alle nostre, non creare pasticci e confusioni, ma sintonie. Contrapponendomi a un poeta genovese dell’avanguardia che parlava di “odio di classe”, ho scritto a sfavore dell’odio di classe e per un meticciato amoroso.
A proposito di oriente e occidente. Nell’ultima sua raccolta "Ferite e rifioriture" in una sorta di prologo in versi dichiara di voler abbandonare Yusuf e Walt Whitman. Cosa voleva dire?
Il libro precedente, "Canti d’oriente e di occidente", l’avevo diviso in due parti: nella prima fingevo di essere un poeta arabo, Yusuf Abdel Nur, Giuseppe portatore di luce; la seconda, invece, l’ho scritta a partire da Whitman. Questo libro era un po’ divaricato, c’erano due strade anche stilisticamente lontane tra loro. Le poesie orientali, scritte in forma di gazal, sono distici rimati per poesie in forma leggera. Invece quelle whitmaniane sono quasi sempre di argomento politico e sociale. L’addio vuol dire che dovevo trovare non tanto una sintesi quanto una via di fuga e sono tornato allora sui miei passi con una poesia più privata e d’amore.
Spesso nella raccolta lei si rivolge a se stesso e in un passo un po’ ungarettiano dichiara di divenire da uomo di pena uomo di gioia.
La pena è una sofferenza immotivata e immotivabile ma più feroce di quella del dolore del mondo. Se uno ha un dolore privato sa cosa è, lo focalizza. A volte però hai una sensazione del dolore, una delle cose che muovono la poesia, che non sai da cosa deriva, perché il mondo e la vita non sono come vorresti, perché senti un’angoscia che non sai da dove parte. La gioia c’è, una sola, vera, quella di scrivere, con il suo potere alchemico di riscatto che muta la pietra del dolore nell’oro della scrittura.
In contemporanea a "Ferite e rifioriture" è uscito il suo "Lettera ai disperati sulla primavera". Un motivo tra i tanti dal libro: “La bellezza è sempre stata per le strade. Non cercatela sugli schermi, non cercatela nelle sfilate di moda”. Come negli anni Ottanta torna su un tema tabù della nostra cultura.
Sì, in questo libro ho parlato nuovamente anche di bellezza. Ho sempre pensato che la bellezza sia energia luminosa, idea lontana dai canoni neoclassici. E me la prendo anche con la chirurgia plastica e l’estetica da essa derivata. Ho avuto a questo proposito un attacco feroce dal giornale della Confindustria che invece di esaminare in profondità un libro così denso e articolato ha preferito appigliarsi a un rigo solo dove esprimo un maggior piacere estetico nel vedere un seno naturale che uno siliconato per scrivere, irridendomi, “a Conte piacciono i seni cascanti”.
Ora uno sguardo al suo passato, l’esordio risale al 1975. Come ricorda il clima di quegli anni.
Lo ricordo come molto duro. C’era stato uno iato terribile tra Sessantotto e quegli inizi anni Settanta. Ero studente alla Statale di Milano, nel cuore della contestazione giovanile, e c’era una battaglia feroce condotta dalla politica contro l’arte. Non è che voler cambiare la società doveva voler dire rifiutare la poesia, eppure sembrava proprio così. La poesia era la grande interdetta per la mia generazione. I maoisti di allora, in tanti oggi in televisione a discettare e a guadagnar fior di soldi, con il loro berretto e lo stemma rosso a dire “tu, come ti permetti di parlare di poesia. Devi servire il popolo!”. Una durezza, altro che poesia. Chi voleva farla doveva agire quasi in clandestinità.
Sempre in quel 1975 esce l’antologia "Il pubblico della poesia" e tu eri in compagnia di Spatola, Vassalli e Viviani. Compagnia alquanto particolare.
"Il pubblico della poesia" effettivamente fu importante ma si trattava, con i 64 poeti inclusi, soprattutto di un’ampia panoramica dei tempi. Ero in compagnia di autori che come me venivano considerati promanazione della neovanguardia. Allora ero redattore al “Verri” e quindi…
Poi la svolta con "L’ultimo aprile bianco" del 1979.
Sì, presi una strada tutta mia, riconosciuta anche da quel mai abbastanza rimpianto grande critico dell’avanguardia che fu Luciano Anceschi che ne scrisse bene. Invece gli altri neoavanguardisti cominciarono ad odiarmi in maniera inimmaginabile forse perché il mio libro ebbe seguito. Anche insospettabili come Calvino mi furono favorevoli e tutt’oggi, a distanza di trent’anni, qualche epigono di quell’area continua a meravigliarsi che perfino Italo Calvino aveva giudicato favorevolmente quel libro.
La sua ricerca ha portato altri poeti a seguirla.
Devo dire che mi sentivo isolato nella mia azione poetica. Ma, ad esempio, con Milo De Angelis ci siamo subito trovati in sintonia, pur nella differenza enorme dello stile e del linguaggio, della personalità e del temperamento. Milo ha conservato molto più di me questo fare da maestro di giovani leve. Ma poi ci sono stati Roberto Carifi, Roberto Mussapi o Rosita Copioli e tanti con i quali ho stretto un legame e un dialogo forte e continuo nel tempo. Sulla poesia finalmente si lavorava con entusiasmo, con interesse dei media e dei grandi giornali, e un’esplosione editoriale che oggi purtroppo sogniamo soltanto.
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Intervista realizzata, a Casa della poesia, in occasione della rassegna “Poesia italiana contemporanea”.