RICORDI DI ROQUE DALTON
A Roque Dalton io lo ricordo ridendo. Magro, di un bianco pallido, ossuto, nasone come me, e ridendo sempre. No so perché ti ricordo sempre ridendo, Roque Dalton. Un rivoluzionario che ride. Non che i rivoluzionari siano particolarmente seri, anzi, ma lui era un rivoluzionario che rideva molto. Rideva soprattutto di se stesso. […]
(Ernesto Cardenal, Ricordo di Roque Dalton, in Recopilación de textos sobre Roque Dalton)
[…] il cammino di un vero rivoluzionario non passa per la sicurezza, la convinzione, lo schema semplificativo e manicheo, ma a esso si arriva e per esso si transita lungo un penoso groviglio di incertezze, […]per raggiungere alla fine quel punto senza ritorno, quella meravigliosa cresta della collina da cui si continua a vedere quello che si è lasciato indietro mentre agli occhi lavati e nuovi si apre il panorama di una realtà altra, di una meta finalmente visibile e raggiungibile. […] Roque aveva voluto che io sapessi di questo itinerario interiore ed esteriore che aveva fatto di lui un combattente, un uomo con la sua scelta finale presa e assunta dopo un lungo processo critico.
(Julio Cortázar, Una morte orrenda, in Recopilación de textos sobre Roque Dalton)
Poeta profondo e beffardo, Roque preferiva prendersi in giro a prendersi sul serio, e così si è salvato dalla magniloquenza e dalla solennità e da altre malattie che affliggono gravemente la poesia politica latinoamericana.
Non si salva dai suoi compagni. Sono i suoi stessi compagni a condannare Roque per reato di discrepanza. Dal suo fianco doveva arrivare questa pallottola, l’ unica pallottola in grado di colpirlo.
(Eduardo Galeano, Roque in Memoria del Fuego 3)
“Dovrebbero dare premi di resistenza per essere salvadoregno” ha detto Roque,[…]. Soffriva d’amore per El Salvador, moriva di freddo per El Salvador e di rabbia e dal ridere.[…]Il suo paese stretto stretto, il suo paese che porta sui fianchi come due orci il Guatemala e l’Honduras,[…]
(Elena Poniatowska, Prologo di Un libro levemente odioso)
[…]/ricordo i tuoi occhi di ragazzo/ che erano quasi un abbraccio quasi un dogma/il fatto è che sei arrivato/presto al buon umore/all’amore cantato/all’amore decantato/al ron fraterno/alle rivoluzioni/ma soprattutto sei arrivato presto/troppo presto/a una morte che non era tua/e che adesso non saprà che fare/con/tanta/vita.
(Mario Benedetti, A Roque, in Últimos Poemas)
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1975, San Salvador:
ROQUE
Roque Dalton, alunno di Miguel Mármol nelle arti della resurrezione, si salvò due volte dalla fucilazione. Una volta si salvò perché cadde il governo e un’altra volta perché cadde la parete, grazie ad un opportuno terremoto. Si è salvato anche dai torturatori, che lo lasciarono malconcio ma vivo, e dai poliziotti che lo cacciarono a suon di pallottole. E si è salvato dai tifosi che lo cacciarono a sassate, e si è salvato dalla furia di una scrofa che aveva appena partorito e da numerosi mariti assetati di vendetta.
Poeta acuto e godereccio, Roque preferiva prendersi in giro che prendersi sul serio, e così si salvò dalla magniloquenza e dalla solennità e da altre malattie che affliggono gravemente la poesia politica latinoamericana.
Non si salva dai suoi compagni. Sono i suoi stessi compagni a condannare Roque per delitto di discrepanza. Doveva venire da vicino questa pallottola, l’unica capace di centrarlo.
Eduardo Galeano
Eduardo Galeano, “Memoria del fuoco”, III, “Il secolo del vento”, trad. Maria Antonietta Peccanti, Firenze, Sansoni, 1991.
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QUITO, FEBBRAIO 1976: ACCENDO IL FUOCO E LO CHIAMO
Notte in casa di Iván Egüez. Mi metto a parlare di Roque Dalton.
Roque Dalton era uno sproposito vivo che non si fermava mai. Sta correndo, ora nella mia memoria. Come avrà fatto la morte ad afferrarlo?
Stavano fucilandolo a 4 giorni prima dell’esecuzione cadde il governo. Un’altra volta stavano fucilandolo e un terremoto crepò le pareti del carcere e fuggì. Le dittature del Salvador, il piccolo paese che era il suo paese e che lui portava tatuato in tutto il corpo, non ce la fecero mai con lui. La morte si vendicò di questo tipo che si era tanto burlato di lei. Alla fine lo colpì a tradimento: gli mandò gli spari proprio dal luogo dove lui non se li aspettava. Per mesi si dubitò e non si seppe. Accadde, non accadde? Accadde. Non vibrarono le telescriventi per informare dell’assassinio di questo poeta che non era nato a Parigi o a New York.
Lui era il più allegro di tutti noi. E il più brutto. Ci sono brutti che almeno possono dire: “Sono brutto, ma simmetrico”. Lui no. Aveva la faccia storta. Si difendeva dicendo che non era nato così. Lo avevano conciato così, diceva. Prima una mattonata sul naso quando giocava al calcio, per colpa di un rigore dubbio. Poi, una sassata nell’occhio destro. Poi, la bottigliata di un marito sospettoso. Poi, le randellate di poliziotti di El Salvador che non capivano la sua passione per il marxismo-leninismo. Poi, un misterioso pestaggio in un incrocio della Mála Strana, a Praga. Una bando lo lasciò steso al suolo con una doppia frattura della mascella e commozione cerebrale.
Un paio d’anni più tardi durante una manovra militare, Roque correva, il fucile in mano e con la baionetta innestata, quando cadde in un fosso. Lì c’era una tremenda scrofa che aveva appena partorito, con tutti i suoi maialini: Lo scrofa disfò quel che rimaneva di lui.
Nel luglio del 1970 mi raccontò, ridendo a crepapelle, la storia della scrofa e mi mostrò un album di fumetti con le imprese dei famosi fratelli Dalton, pistoleri da film, che erano stati tutti suoi avi.
La poesia di Roque era, come lui, affettuosa, ironica e combattiva. Di coraggio ne aveva fin troppo, e per questo non gli era necessario menzionarlo.
Parlo di Roque e lo porto, questa notte, in casa di Iván. Di quelli che sono qui, nessuno lo ha conosciuto. Che cosa importa? Iván ha un esemplare di Taverna y otros lugares. Anch’io l’ho avuto tempo addietro a Montevideo. Cerco in Taverna, e non lo trovo, un poema che forse ha immaginato, ma che potrebbe aver scritto, sulla fortuna e la bellezza di nascere in America.
Iván che conosce la taversa Ufleka di Praga, legge, a voce alta, un poema. Luis, un lungo poema e cronaca d’amore. Il libro passa di mano in mano. Io scelgo alcuni versi che parlano di come è bella la collera quando scoppia improvvisamente.
Ognuno entra nella morte nel modo che preferisce. Alcuni, in silenzio, camminando in punta di piedi; altri, rinculando; altri, chiedendo perdono o permesso. C’è chi entra discutendo o chiedendo spiegazioni e c’è chi vi si apre il passo scalciando e mandando a dar via il culo. C’è chi l’abbraccia. C’è chi si chiude gli occhi; c’è chi piange. Io ho sempre pensato che Roque sarebbe entrato nella sua morte a risate. Mi domando se ne avrà avuto la possibilità. Non sarà stato più forte il dolore di morire assassinato da quelli che erano stati i suoi compagni?
Proprio allora suona il campanello. È Humberto Vinueza, che arriva dalla casa di Agustín Cueva. Non appena Iván gli apre la porta, Humberto dice, senza che nessuno gli abbia spiegato o domandato niente: “È stata una frazione dissidente”.
“Chi? Come?”
“Quelli che hanno ammazzato Roque Dalton. Me lo ha detto Agustín. In Messico hanno pubblicato…”
Humberto si siede tra noi.
Rimaniamo tutti in silenzio, ascoltando la pioggia che batte sulle finestre.
Eduardo Galeano
Eduardo Galeano, “Giorni e notti di amore e guerra”, trad. Giorgio Oldrini, Roma, Edizioni Associate, 1987.