«Per chi scrive storie all'asciutto della prosa», dice De Luca introducendo questo suo primo libro di poesia, «l'azzardo dei versi è il mare aperto... È che a cinquant'anni un uomo sente di doversi staccare dalla terraferma e andarsene al largo». Il largo, l'orizzonte dei testi qui presentati è orientato verso il cuore pulsante delle cose, si tratti dell'ampio respiro simbolico delle parole dei testi sacri o di motivi ed emblemi della vicenda dell'autore. L'acqua è il tema dominante, visivamente e allegoricamente. Si presenta innanzitutto come elemento primordiale, preesistente alla luce stessa, citato nel Bereshit, la Genesi della Bibbia ebraica; e viene via via declinato nelle possibili implicazioni, personali e metaforiche, mitico-religiose e storiche. Dalle potenzialità che precedono la creazione alla casistica delle cronache contemporanee: Vajont, i fiumi insanguinati di Jugoslavia. Acque di riparo e di tempesta, di profondità e di superficie; acque che sono origine, mistero, fluidità e quindi vita, sentimento. E che si portano dietro, per implicazione o contrasto, le visioni-idea di cielo, terra, sangue incarnate nell'umanità archetipica della seconda parte del libro, che si chiude con l'immagine di un'arrampicata sulle Alpi.
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Erri De Luca
Onore ai poeti che aiutano a vivere
Quando c’è poco tempo e bussano alla porta, battono la città con artiglieria, quando brucia, quando sei solo in un letto d’ospedale, quando arrivi troppo tardi, quando ti mancano le parole e il fiato è corto, allora la poesia, una, prende il tuo posto, prende la tua mano che non ci arriva: e arriva. Negli assedi, nelle prigioni, nelle cantine su pezzi di carta di fortuna si scrivono poesie. Il partigiano jugoslavo Ante Zemliar ne scriveva durante la guerra in montagna contro i nazifascisti. Le scriveva su quaderno. In sua assenza i compagni la trovarono e con la carta fecero sigarette. Non c’era molto per fumare e Ante sa che anche così le sue poesie hanno avuto respiro. Il partigiano Zemliar dopo la guerra vinta ha fatto cinque anni di prigionia nella colonia penale di Tito, goli otok, isola nuda. Anche lì scriveva poesie con un pezzetto di carbone nell’unghia su pezzi di cartone, di nascosto. Nel ghetto di Lotz nel 1943 Isaia Spiegel scriveva nel suo yiddish braccato: "Il mio corpo è un pane/calato in un calice di sangue".
Scusate amici, non sto parlando di Leopardi e Virgilio, entrambi napoletani terminali, non sto facendo onore alla poesia. Parlo di dove essa è all’improvviso indispensabile. Parlo di dove è urgente anche se in quel momento il poeta è muto e non riesce a scrivere neanche il suo nome sulla porta di casa. Il mio amico Izet Sarajlic scriveva in Sarajevo versi da tutti ripetuti a mente perché laggiù le poesie stanno sul davanzale delle labbra.
Ecco, Izet durante gli anni dell’assedio scrive poco, non fa più il poeta. Cosa fa? Sta lì, vive con la città scassata, condivide la fame, le code per l’acqua, per il pane. Non profitta di inviti a emigrare. Sta lì, quella è la sua poesia tra i suoi concittadini, e scalda uguale. Un poeta è responsabile del dolore come della gioia.
Scusate, non sto parlando di Leopardi e Virgilio, ma di amici miei. Ma se non senti amico all’improvviso un poeta, un suo verso caduto sopra gli occhi a illuminarli, a che serve un poeta? A prenderti sotto braccio, a metterti le sillabe di una strofa miracolosa, per esempio perfetta di malinconia e puntiglio come questa:
"E fuie tanto arraggiuso ’o primm vaso / ca mocca, mo’ ca n’ato se la sposa / na guccetella e sango n’è rummasa".
E non vi dico il nome del poeta perchè un napoletano deve già saperlo e se no correre per la città e chiedere ad ogni incrocio: sapete chi l’ha scritta, chi l’ha fatta? E una sera di luglio senza sapere come scavalcare i centimetri tra una donna e me, tirai dallo scaffale le poesie di Hikmet, misi la voce spenta sui suoi versi e tra noi due sparì anche l’ultimo millimetro.
Ma questo non è calcolo o sistema: o è frutto di un momento di improvvisazione oppure è falso. Perchè poesia è una mossa che inventa la verità. Non la sa prima. E in tempi di richiamo alle armi, quando la parola guerra gira per i giornali come una ricetta, un vaccino contro l’epidemia febbrile di stagione, allora la poesia serve a stonare.
Infilata nel coro, lo fa stridere, fa per un momento ritornare in silenzio. Perchè dà valore alle parole, usandone poche e ben serrate, perché dà sangue alla parola guerra, le dà sventramento e gas nervino, le dà corpi di donne, bimbi, vecchi, molto più che di poveri fanti.
In tempi di generali, di squilli, di proclami, i poeti, le poesie salvano le orecchie. No, salvano il mondo.
“Il Mattino”, 13 settembre 2002