Ales Debeljak (1961) è un poeta raffinato, completo, sottile, colto, teoricamente ferratissimo. Predilige il verso lungo. Spesso la sua lirica si dilata fino a lambire i confini della prosa musicale. Mai però a caso. Il suo discorso poetico è sempre estremamente razionale, disciplinato, quasi di norma organizzato in quartino, strofe, cicli. Si sa: è stato campione di judo, è sociologo culturale, scrive illuminanti saggi sul postmodernismo. Ma non per questo l’esito della sua arte lirica è freddo, cerebrale, meno affascinante, emozionante, profondo. Tutt’altro…
Il mondo poetico di Debeljak è una meta-realtà, il “nessun luogo”, uno spazio immateriale e fantastico abitato con uguale diritto di cittadinanza da cose e pensieri, voci e reminiscenze letterarie: dai do acuti di Ella fitzgerald au suk di Marrakesh. La parola del poeta può soltanto sfiorare gli oggetti di questo mondo, illuminarli per un fugace attimo dal buio della non-coscienza. Poi ritornano nell’oscurità, nello spazio senza tempo in cui erano immersi prima che il poeta giungesse a “nominarli”. Tra il verbo e la realtà c’è un abisso insormontabile. “le cose sono vuote. In loro non c’è nulla”, scrive Debeljak. È la poesia ad animarle. Ma non più evocando i “correlativi oggettivi” di Eliot, non cercando più improbabili ancoraggi nella realtà concreta. Perché l’essenza materiale rimane in conoscibile per l’uomo, intoccabile. La poesia, allora, può soltanto illudere, incantare, stregare. diventata pura magia linguistica, la lepotija, la “belletria” di Grafenauer. Tutto e niente.
Ma di cosa canta la poesia di Debeljak? Ce lo raccontano i titoli dei suoi libri. Perché i titoli sono, come noto, chiavi d’interpretazione, messaggi in bottiglie che l’autore lancia al lettore. E Debeljak dice: canto trasformazioni e mutamenti, i nomi della morte, il vocabolario del silenzio, i minuti dei paura, la città e il bambino. I temi più frequenti sono quelli della parola, della poesia, della morte, della malinconia, del ricordo, del silenzio, della solitudine, ma anche – seppur meno spesso – dell’amore e dell’amicizia. Il soggetto lirico è scomposto in frazioni infinitesimali, straziato dall’orrore di vivere tra cose vuote. D’accordo, c’è la poesia. Ma che senso ha aggiungere una goccia all’oceano del già detto? E come ritagliarsi uno spazio proprio, una storia personale nella ridda di storie ridondanti che ripetono con sé stesse l’infinito racconto del “ni novi sub sole”? Con la coscienza dei postmoderni. Imitando, sapendo di imitare. Colloquiando col passato. Citando Rimbaud, Yeats, Kocbek o Brodski.
Debeljak è il più affermato, tradotto, cosmopolita e postmodernitico tra gli autori della sua generazione. Ma è anche quello che ha metabolizzato forse per primo questa corrente, confinandola perlopiù negli anni ’80 e nelle sue iniziali raccolte, come si fa con una necessaria malattia infantile. E ora, dopo aver oltrepassato le colonne d’Ercole del postmodernismo, continua a navigare, a viaggiare. Perché – come dice – “Nulla è raggiungibile. Nessuna voce si duplica”, perché “le cose perdurano, tranquillamente…” e perché “Ciò che va oltre me / siamo noi due, il nostro muschio, l’argento, la vulnerabilità, il lungo viaggio…”
Miran Košuta
in: “Nuova poesia slovena”, a cura di Michele Obit, ZTT EST, Trieste, 1998
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L’insonnia e il racconto di una pena
Nella poesia di Aleš Debeljak, "La città e il bambino", c’è un verso che dice: “Ecco perché i poeti non dormono mai. Il significato / appare chiaro adesso: sarà il racconto di una pena”. Mi sono soffermato a lungo su questi versi cercando di interpretare la verità a cui alludono. Dunque, i poeti non dormono mai. Ma qual è il problema che costringe all’insonnia i poeti? Debeljak ci dice che è il destino a cui sono condannati, ovverosia – come dice lui – l’essere obbligati al racconto di una pena. Ma è davvero questo il compito dei poeti e più in generale degli scrittori? Si dice che Pirandello da ragazzo soffrisse d’insonnia e che dormisse abitualmente non più di tre ore per notte, e sembra che Proust uscisse di casa solo col favore delle tenebre e indossando perennemente un frac e che, a suo dire, l’insonnia fosse quasi un privilegio, e poi ancora, Charles Baudelaire, Charles Dickens, Francis Scott Fitzgerald, William Faulkner, Oscar Wilde, Samuel Taylor Coleridge, Henry James, Hermann Hesse, Mark Twain, Virginia Woolf, Kurt Vonnegut, tutti accomunati dall’analogo destino di non dormire mai, o comunque di dormire pochissimo. Quanto a me, quando andavo all’asilo soffrivo di un disturbo permanente che mi rendeva insostenibili certi pomeriggi, quando le suore ci obbligavano a dormire per un’ora e mezza stendendoci sulle sdraio e spegnendo le luci dell’aula. Intorno a me gli altri bambini cadevano immediatamente e senza un briciolo di sforzo in sonni profondi, io dentro di me giuravo che se fossi rinato avrei voluto essere il più formidabile dei dormiglioni. E invece niente, languivo al buio, agitando i pensieri come trote appena tolte dall’acqua (“Non piangere, davvero, non serve”). Il mondo intorno a me diventava un cerchio torbido e imperfetto, e la mia testa veniva assorbita da pensieri torturanti e dolorosi. Quando poi quel supplizio terminava con due colpi di mano della suora più anziana, colpi che servivano a risvegliare i bambini dal riposo pomeridiano, sul mio viso rimaneva appiccicata l’espressione sconvolta di uno che aveva passato le pene dell’inferno. E mentre gli altri ragazzini correvano in giardino affrettandosi a occupare le altalene e i giochi, io camminavo lentamente attraverso il cortile davanti alla piccola chiesa fermandomi a fissare il crocifisso sulla sommità della facciata (“il segno dipinto sul fregio leggero di un portone”), torturandomi con le dita l’orlo del grembiule celeste. Ecco, quel bambino di cui parla Debeljak sono io, me ne sono arciconvinto nell’intervallo di tempo che impiego a scrivere questa nota (“Te ne stai su roccia immota. Il mondo tutt’intorno a te rovina / nell’abisso. Bevi l’acqua della vita, che scorre dalle labbra / di quelli che respirano con te”). La città non era la Ljubljana di Debeljak, la città era quella cosa senza nome a metà tra una periferia e un dormitorio in cui sono cresciuto e di cui conservo ricordi senza nostalgia. Ecco allora che si chiude il cerchio. Apro gli occhi e mi accorgo che ho fatto esattamente quello che fanno gli insonni secondo Debeljak. Senza essere un poeta ho raccontato la mia pena.
Andrea Pomella
giovedì, 24 settembre 2009
da: Filosofi per Caso: area di discussione metropolitana