Intervista a Biancamaria Frabotta autrice di "Quartetto per masse e voce sola"
Biancamaria Frabotta, docente di letteratura italiana contemporanea a La Sapienza di Roma, personalità poliedrica e di grande originalità, ha recentemente pubblicato per i tipi della Donzelli un libro autobiografico agile e di grande respiro poetico dal titolo Quartetto per masse e voce sola. Nell’opera rivive l’esperienza di una vita vissuta, pensata e continuamente oscillante fra un bisogno di “viandanza” e una tentazione “di vita sedentaria” che va bel al di là della realtà fisica dell’autrice. Sentimenti, linguaggio di grandissimo pregio, passioni sociali “di una donna che vive oggi, legge e scrive poesie”. Un libro accattivante.
La professoressa Frabotta si è intrattenuta con noi di Booksblog per parlare del suo libro. Ringraziadola per la disponibilità, vi lasciamo al nostro dialogo.
Ciò che si nota subito è la cura di cesello del linguaggio. Una lingua preziosa, avvolgente. È cosa spontanea o frutto di un lavoro di creazione “poetica”?
Non esiste, credo, una differenza fra le due alternative proposte. La spontaneità della scrittura è sempre il frutto del lavoro. In Vita activa Hannah Arendt distingue fra lavoro e opera, ricordando come nell’antichità il lavoro era il segno della schiavitù. Nel Quartetto ne parlo: il lavoro di un poeta spesso coincide con l’ozio, non è necessario, né redditizio. Ma io so che la prosa dei miei “pezzi”, termine che uso sia in senso musicale che giornalistico, dato che il messaggio sta nella forma, non avrebbe raggiunto la sua qualità avvolgente, come dice lei, se non li avessi riscritti quattro volte di seguito. Però è anche il caso di aggiungere che, a causa degli impegni “burocratici” cui l’odierna Università mi obbliga, scrivevo di notte. O meglio all’alba, dunque in uno stato lievemente ipnotico. Non credo però di usare una lingua preziosa, né tanto meno cesellata. Non mi sento un orefice della lingua. Cerco soltanto di essere precisa, evitando la banalità dell’ideologia. “Penso” le frasi mentre le scrivo, invitando il lettore a fare altrettanto, a dialogare con la mia lingua, veicolo delle idee e delle emozioni che la memoria del passato porta con sé.
Come si colloca il libro in questione all’interno di tutta la sua opera?
Non posso darle una risposta precisa. So che è un libro importante, è stato generato da un Autoritratto scritto per l’ultimo numero dell’Almanacco dello Specchio. Già in quel pezzo d’origine, una sorta di genesi collocata nel profondo, mi rendevo conto che stava nascendo una prosa “inclassificabile”. Né del tutto privata, né del tutto pubblica. Non una semplice dichiarazione di poetica o di intenzioni, che sarebbe stata forse utile solo per me. E mi auguro che la musica del pensiero che mi andava avvolgendo (il suo termine lo trovo veramente appropriato e mi ha dato una chiave di lettura) esprima la necessità dell’affondo nella interiorità dettato da alcuni eventi biografici. Per esempio la morte di mia madre che, come dico nell’Autoritratto guidò il mio percorso esistenziale con la luce fioca, ma radicata nel cielo nero della vita “notturna”, come una stella polare.
Perché proprio un libro autobiografico? Per mettersi in discussione o per rileggersi? O per usare una sua terminologia che trovo molto pertinente, per confermare quella che lei chiama “viandanza” o per una tentazione alla stanzialità?
Di “viandanza” e “vita sedentaria” (titoli fra l’altro di due sezioni centrali di una raccolta del 1995 da tempo introvabile) ragiono a lungo nel Quartetto e dovrei ripetermi. Insisto soltanto sulla affinità, e forse addirittura, unicità di due stati della vita personale della nostra ormai sin troppo antica e raffinata cultura occidentale. Non parlerei di autobiografia, ma semmai di autocoscienza, che non intendo affatto in senso idealista, o astratto. Fra le donne della mia generazione l’autocoscienza fu una pratica consolidata che durò anni. Rileggersi e mettersi in discussione, o mettere in discussione la routine dei rapporti umani, per citare un bel titolo di Antonio Porta, un poeta che comprese a fondo il senso della ricerca femminile di quegli anni, è sempre stato un tutt’uno per noi. Il Quartetto, in fin dei conti, è un’ulteriore riprova di una convinzione che guidò molte donne in quegli anni. E cioè: il personale è politico. Cominciando sulle note narcisistiche della rimemorazione infantile e terminando, nel nome di Simone Weil, nell’auspicio di un nuovo impegno, ripropongo quel cammino antico,ma non tramontato, credo.
Secondo lei ha senso parlare di scrittura al femminile?
Forse immodestamente ritengo che la scrittura del Quartetto ne offra una prova. Non l’unica possibile, certo, ma una delle tante forme che può assumere. Sono una donna che scrive (e ne conosco altre, compagne di una silenziosa affinità) ma in qualche altro scrittore di sesso maschile, vibra, quella stessa corda, ne sono sicura. Non sto parlando di letteratura gay (termine un po’ troppo rassicurante e che invita a rimuovere la problematicità di una condizione, come tutte le cose della vita umana, non sempre allegra). Caso mai di ambiguità androgina della scrittura che suona e fa risuonare diverse corde, delle quali non sempre chi scrive è consapevole. E in ogni caso non prima, appunto, di registrarle in quella speciale partitura della vita che è la scrittura.
Roma è presentata in modo crudo e pur tuttavia non privo di poeticità, ritiene che l’immagine da lei delineata rappresenti anche l’attualità dell’Urbe?
Roma è per me, ancora oggi, un alveo materno, ma anche un alvo intestinale, una specie di santa cloaca della tradizione che stenta a riconoscere la modernità. Se questo mio sentimento privatissimo, ma anche condiviso da tanti che prima di me rappresentarono l’Urbe, come lei dice, in parole e immagini, sia corrispondente all’attualità, non saprei dire. So che Roma è una città di lungo corso, dalle lentissime trasformazioni, più antropologiche, che storiche. Attuale è la straordinaria mutazione portata oggi dalle emigrazioni e dai terribili e grandiosi rimescolamenti culturali, religiosi, nazionali nei quali volenti o nolenti siamo tutti coinvolti. E a quanti di noi viene spontaneo ricorrere alla metafora di un Impero corroso dall’interno, proprio pensando alla esemplare storia dell’antica Roma?
Nel suo libro si nota una grande familiarità con la pagina scritta e con i libri, potrebbe consigliare delle letture?
Il Quartetto è anche un lungo viaggio nelle letture, spesso notturne, che mi accompagnarono nella vita. Lei vorrebbe indurmi a titoli, o nomi, o consigli per gli acquisti. Mi permetta di sottrarmi a questo ingrato compito. Oggi ognuno di noi è una particella vagante nelle fluttuazioni dei gusti, delle scoperte, degli errori inevitabili. Ognuno di noi è un miscuglio in districabile di “masse” e “voce sola”.ed è difficile riconoscere i “maestri”. In ogni caso ho dedicato i miei ultimi corsi a Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Amelia Rosselli. Tutti pensavano di aver già “letto” un classico come Cristo si è fermato ad Eboli e per questo forse mi sono trovata a esaminare duecentocinquanta studenti in una sola sessione. Ma ciò che sembrava noto si rivelò un tesoro ignoto, tutto da riscoprire…
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