Impressioni sparse di un viaggio tra le frontiere
Nedžad Maksumić è sul palco e legge le sue poesie. I suoi versi tradotti in italiano sullo schermo dietro di lui. Una poesia e poi un'altra. L'ultimo dei cinque poeti della prima serata del Festival internazionale di poesia di Sarajevo. La sua è la poesia della guerra; noi siamo ospiti. Dodici ore di pullman da Trieste per essere presenti quando tutto è già finito da un pezzo. L'ultimo numero di PaginaZero è appena uscito. Tratta dei Balcani: Matvejević, Richter, Finci, Debeljak, Petrović, Floramo, Scotti, Ovadia, Biagini, Dor. Non conosco Nedžad, le sue poesie; la stanchezza impera, la voglia di bere anche. Abbiamo già individuato e provato locali nel pomeriggio che stanotte rivisiteremo. Finita la sua lettura ci aspetta il buffet offerto dall'ambasciata italiana. Ci uniremo alla flotta di cavallette tra poco. Nedžad legge di Sarajevo; una barca pesante ancorata, senza possibilità di movimento. La bara di Sarajevo. E di Gerusalemme. Stesso destino? Religione? Dio unico? Il nostro numero di PZ pare trovare immediatamente un'identità; stessi temi, stesso percorso. Le parole del poeta sono secche, come dovrebbero essere; non c'è nulla da opporre. La voce è essenziale, non aggiunge nulla. Il dolore per i morti e per la morte è sublimato e questo è forse l'ultimo dolore per chi scrive. Guardo lo schermo dietro il poeta per leggere i versi tradotti in italiano e nell'istante in cui un guasto tecnico ci priva della traduzione nessuno si muove; non una voce, non un brusio come successo con il secondo poeta. Non è cambiato nulla. Lui non sa del guasto e continua. È la sua voce che stavamo leggendo. Alla fine l'applauso di rito. Vendiamo alcune copie della rivista nel banchetto approntato all'ingresso della sala. Poche copie, ma tutto serve. Nedžad è seduto vicino a un signore robusto. Vogliamo parlargli. Aspettiamo e poi ci avviciniamo. Gli presentiamo la rivista. Scorre i nomi. “Ah Matvejević, è un mio amico. Anche Ovadia è mio amico. Petrović deve essere un serbo”. Il suo italiano prosegue lento. Qualche informazione sulle sue poesie. È di Mostar, la città in cui ci recheremo domani. Domani gli daremo un passaggio con il pullman, circa due ore e poco più di viaggio. Lui ci darà il suo dolore con poche frasi “Vedete questi campi. Qua una volta, prima della guerra, era tutto coltivato. Ora non c'è nulla. Solo ora stanno ricostruendo. Ciò che si distrugge in un giorno ci vogliono dieci anni per ricostruirlo”… “Questa è la strada che separava la parte bosniaca da quella croata. Io abitavo nella parte croata. Hanno iniziato a spararmi addosso persone con cui vivevo nello stesso palazzo da anni. La guerra mi ha cacciato dalla mia casa. Ora sono tornato e sempre nella mia casa anche se ora questa zona della città è governata dai croati. E vivo con le stesse persone che mi sparavano addosso. Lassù sulla collina c'è quella grossa croce. L'hanno posta i croati in segno di vittoria contro di noi. Chissà che cosa avevano da celebrare…solo guerra”.
Il buffet prosegue tra pietanze locali, straordinari poeti e splendide ragazze. Incredibilmente belle. Continuiamo a bere. Vino e grappe. Le sue poesie sono quelle che ogni persona che scrive o legge desidera trovare ogni volta che apre un libro e in cui nella stragrande maggioranza delle volte trova solo delusione. È notte fonda e ci avviamo all'albergo. Nedžad viene con noi. Siamo in quattro. Camminiamo due a due, vicini. Sarajevo come consuetudine a una certa ora si svuota. Lui ci parla della sua vita. Dice sempre:“… prima della guerra”. È tutto un prima della guerra e un dopo. Ci racconta del suo soggiorno in Italia, del lavoro nei teatri, della compagnia delle marionette. “La vita in Italia era troppo cara. Vedete qui è dove i cecchini hanno sparato per la prima volta contro le persone”. Ogni sua parola ha il tono di un'assurdità ancora non risolta. Mi accorgo della sua giacca troppo larga di spalle e degli occhi vivissimi quando guardano altre persone e lontani nelle parole quando parla di quello che il suo popolo ha vissuto. Tiene stretta PaginaZero nella mano destra. Quasi arrotolata. A tratti mi sento inadatto. Come se il privilegio di trovarmi lì non fosse ancora meritato. L'albergo è su una collinetta. Non si incontrano persone. La conversazione è silenziosa, poche frasi. “Sarajevo è piena di armi ovunque. La criminalità è molto alta”. Dal piazzale dell'albergo si vede uno dei tanti cimiteri di croci bianche su di un crinale. Croci mussulmane. “Per i mussulmani il cimitero è un luogo dove deporre i corpi e basta. Non c'è un culto dei morti. Non li si va a trovare. Però a poco a poco anche noi abbiamo iniziato a recarci sulle tombe, a pulirle, a incontrarci con loro”. Siamo all'ingresso dell'albergo. Dalla collina si vede Sarajevo, il suo fiume e i suoi ponti. La biblioteca distrutta. “Questo era uno dei posti da dove i cecchini sparavano sulle persone. Tre anni. La bara di Sarajevo”. Ci salutiamo. Domani ci recheremo a Mostar. Nedžad ci darà le sue poesie per il prossimo numero della rivista. Le vorrei avere già in mano ora per rileggerle ma bisogna aspettare. Domani vedremo il Ponte Vecchio ricostruito. Una delle foto del numero di PaginaZero. E i tuffatori che per pochi euro si gettano nel fiume. Come descritto da Melita Richter nel secondo pezzo della rivista. Il numero ora è vivo. Vediamo il ponte dall'alto, dal basso, e mentre lo attraversiamo. Una vecchia ci porta in una stradina dove si apre uno dei tanti cimiteri della città. Ci mostra la foto del figlio su di una tomba e piange. Vuole una foto. La facciamo. Non ci chiede soldi. Ci mostra da dove gli hanno sparato. Non capiamo cosa in realtà vuole. La gente del posto ci guarda e ride. Forse la vecchia è un po' matta e fa così con tutti, ma non ci chiede niente. La salutiamo e andiamo a mangiare in un posto consigliatoci da Nedžad che dopo averci accompagnato sul ponte ci saluta e ritorna nella parte croata a casa sua. “A Sarajevo c'erano i cecchini e le granate, ma a Mostar hanno distrutto i simboli che è peggio”. Mangiamo carne di agnello, riso e patate. Uno dei tanti agnelli scorticati e infilzati interi nello spiedo e girati e rosolati. Ce ne sono molti lungo la strada da Sarajevo a Mostar. Praticamente ogni posto di ristoro ha i suoi agnelli. Non so perché ma associo noi europei ai coltelli che tagliano quella carne.
Continuiamo a bere, quasi per tutto il giorno. Ancora cimiteri sulla strada del ritorno. Tra i boschi, nei giardini delle case. Un vecchio contadino falcia del grano. È tremendamente vecchio, o almeno pare. Anche il suo giardino ha le sue tombe. Ricordo la frase di una madre dopo la morte del figlio “Di giorno non vedo l'ora che sia notte e di notte non vedo l'ora che sia giorno”.
Ormai non esiste tregua.
ho visto le tombe sui crinali
bianche come greggi di pecore,
ma loro non si muovevano, amico,
non si muovevano
l'agnello rosolato, un fuso
lungo la strada per Mostar
e a ogni sosta altri agnelli
in attesa, già morti, dei nostri coltelli
“ora il giorno è una notte più lunga”
dice il vecchio e la sua falce ancora
tra il grano oltre le pecore e le tombe
bianche che non si muovono, fratello,
loro non si muovono
Paolo Fichera
da http://www.porpore.com/numero8/frontiera_n8.html