Al mio nono compleanno, nel 1979, dopo la festa, mio padre con un coltello da cucina, con il quale mia madre aveva tagliato la torta, aveva inciso la mia altezza sull’anta dell’armadio della mia stanza. Sul coltello si erano attaccati i resti bianchi e azzurri della panna che copriva la superficie di cioccolata della torta, ricordandomi la figura di un vecchio, accigliato e scontento del mio entusiasmo, perché in quel momento avevo pensato che agli occhi dei miei genitori fossi diventato il centro del mondo. Mentre mio padre passava la brillante lama del coltello sui miei capelli, la panna si attaccò ai miei ciuffi. Allora sull’anta di legno, sulla quale ridacchiavano le figurine dei calciatori, mia madre con una matita rossa, accanto a loro, segnò anche la mia altezza: un metro e trentaquattro.
Al mio decimo compleanno, nel 1980, sull’anta dell’armadio, con una tinta bianca venne segnata la mia altezza: un metro e quarantadue. Durante la festa ero triste, perché mi sembrava di non poter mai raggiungere l’altezza della foto di Tito che mi sorrideva, vitreo, dall’angolo sinistro della stanza.
Con le adidas rosse divise da tre linee azzurre, una maglietta bianca lacoste, con il marchio del coccodrillo che si piegava su se stesso dando una nuova forza al mio corpo e con i levis che non si potevano piegare intorno alle ginocchia, nel 1981, con una tinta blu venne segnata la mia altezza: un metro e cinquantasei. Tutti in famiglia erano entusiasti della mia crescita.
Sull’anta dell’armadio c’erano i tre colori della bandiera jugoslava che indicavano la mia crescita.
Al giuramento militare, nel 1989, grazie alla mia altezza ero in prima fila accanto alla bandiera jugoslava. Nessuno si accorse che proprio nel momento più atteso della celebrazione, mentre giuravamo sulla nostra vita fedeltà alla patria, dalla punta del mio fucile cadde la baionetta rimbalzando tre volte sul freddo asfalto.
Nel 1993 ero alto un metro e novantuno. Stavo accanto a una finestra alta due metri e guardavo un morto, colpito da un cecchino, steso su quattro mattonelle del marciapiede. Toccava l’asfalto con le dita mentre il sole rimbalzava tre volte sul suo braccialetto d’oro. Le goccioline di vapore si ammucchiavano sulla finestra, non sono riuscito a contarle:
sfilavano i secondi:
uno,
due,
tre,
quattro...
In un attimo ho sentito sulla testa la riga con la quale la mano di mio padre misurava il confine tra me e il mondo.