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04/04/2011

Luigi, Sarajevo - Tombeau Poesie

Luigi, Sarajevo - Tombeau
«Do you let me live? No…/ Mi lasciate vivere? No... »
- Jack Hirschman, “The Pasolini Arcane / L’Arcano di Pasolini”

1. Non è di sangue non è di suolo che vive l’uomo ma solo di pane che cresce nelle mani che mietono e che si moltiplica nelle bocche ferite che sputano sangue nel sangue del suolo perché s’impasti e muti in fasto l’incarnata miseria di padre in padre in libero scempio di figli svezzati
da sbirri sempre-in-fasce
Sangue ch’esplode in lampi senza foce che ristagnano nel ripopolato cielo di furie fiammanti e fanno corde e nodi e groppi che si rovesciano infine su ondulati musi di lamiera mentre gli appostati dèi-cecchini aspettano l’istante in cui malinconie avvolgano i passanti e li rendano facili prede per spari dall’altissimo dei cieli
Tu mutilo pensiero senza foce tu canto che t’invecchi nella gola tu polveroso uadi di salvezza tra sabbie grasse di micropoteri tu guidami da chi mi si è sottratto dalle mani in pena che senza polpa avvolgono l’ossette porosette frantumate nel sacco della pelle morta cucita insieme in suppliche o piangente in strette virilotte d’ex macisti
Vivo nella serva noia e severa e vile che non spendo se non per offrire assenzio e tosco ai topi in trappola con me senza decoro e fanno e faccio i nomi dei complici devoti che hanno costretto il Santo a genuflettersi davanti agli occhi malavitosi d’assennati assessorucoli prefascisti e a profeti che danno la caccia al numero che manca
Non posso che brindare al nostro eterno riposo in vita vacante o al vile rimedio che perpetua la miseria cauterizzandola appena – tra torri di fuoco amico ci sono bianche teorie di viventi spossessati al punto di rifugiarsi tra spume di deserto senza tregua e crederle onde di grano nel tempo ostile ch’è strage dei corpi e del Vero, mentre
così dicevamo la cameriera slava in Costa azzurra ci guardava e muta gridava servendo pizze ch’era ora di finirla con le piaghe macerate rimboccate e ch’era tempo finalmente di spalancarsi al vuoto mondo capirne le strategie e le stragi postideologiche e i gorgheggi degli ultimi rimasti a svergognarsi imbelli come fiori impagliati dentro muscoli di polvere
Non di sangue né di suolo vive l’uomo ma solo d’attraversate fughe in nomadi silenzi e d’ombre raschiate dai corpi e ora lontanissime e perdute ma consistenti come discipline di duro autogoverno – usci e urla sprangano gli altri, sanno che solo separando e minando, la violenta loro libertà prende senso, e si dicono assaliti quando i loro sgherri e preti giorno dopo giorno
stuprano
(poi altri morti miei, a Rieti, città-nepente)
Quando pochi erano rimasti in vita, per non lasciarmi soffrire a lungo senza lutti, sentì Luigi ch’era il suo momento e si partì da terra salutato da salve di palme e ulivi la domenica dell’ingresso del Cristo affaticato per le strade d’una porca Bruxelles o sporca Albintimilium di rancori razziali – fu di Luigi morente l’ultimo tentativo di finirla per sempre con la morte, fu Luigi
a rilanciare il tentativo di liberare dal corso della storia storta il battito dei passi rimpatriati di profughi senza patria, e dei clandestini il lucore maldestro di denti arricciolati tra labbra che nere danno lampi di scurissime vendette - togli manette al profugo solenne!, e al dio scaraventato giù dal barcone stendi onde di trionfo perché suo è il regno e la potenza e la gloria nei secoli dei secoli, e ora e qui
Qui per Luigi rincaso con grappe fatte in casa in bottiglie di plastica da una serata sbronza d’anarchici e magi e volti che moltiplicano all’infinito il gorgo d’esserci e proseguire invano intatti – al Kino Prvi Maj suonano fisarmoniche vecchie come il cosmo ma che danno note nuove ad ogni istante, e leggi future nel presente disattente, leggi di vita splendida nel ghetto ipermoderno
Qui per Luigi svelto svetto sulla corda, dai più malinteso e dai pochi superstiti allo sterminio riuscito dell’epoche a venire amato come s’ama un corpo muto, un muro di fuliggine che s’immette tra noi e il terrore, tra noi raccomandabili e gli altri precisini, grucce nelle vene o a dirigere il getto del sangue attenti a non sporcare
Qui per Luigi continuo alterchi e m’alzo per spaccare il ghiaccio dagli occhi e vedermi infine impuro, padre di figli orfano con muco che trabocca da nari taglieggiate dal respiro – qui doppiopetti frugano container ed estraggono dal buio della puzza ostie violente e baci non dati - mai più la guerra!, ma uomini ce ne sono che debbono essere uccisi! (Fortini) - crime d’idées!, mi gridano Le Monde e i beceri laici
Qui con Luigi ancora corro per strade d’innervate fughe, tra la Salaria e l’Aurelia e via del Maresciallo Tito – quest’anno l’inverno si è protratto ed ha contaminato la stanca primavera, eclissi del silenzio e chiacchiericcio che allude a cadaveri, mentre tu l’etrusco- monegasco in rabbia tu guardi e consideri e vendicatemi! dici, tu non ucciso, ma per gli altri generoso
Qui Sarajevo tace rossa di massacri in ferie qui Sarajevo giace per troppo aver amato come in Persia l’assassino appeso lentissimo a una gru dinanzi a una folla in fiamme d’osannanti ancora ancora oppure nella baia di Guantanamo-sul-Tigri dove azzimatissimi mastini masticano prepuzi o nella dolce Cina che con guanti bianchi fa chinare la testa a ladroncelli in ordinata fila a centinaia prima di finirli oppure
di tutte le cose la più tremenda è l’uomo mi dicono le piante di lampone che sempre nascono dallo stupro collettivo di Srebrenica – tutti innocenti, e della razza di Abele tutti e tutte, e caini gli altri della truppa dei peggiori per i quali non pregare, gli indifendibili rei confessi d’accanita vita contro i Leviatani concentrati o diffusi, o quegli altri ancora, i criptocomunisti sostenitori dei diritti umani universali come Ratzinger Mastella e Putin il ceceno
A corpo a corpo dentro il corpo che ci attacca, dentro il corpo comico e cronico dentro macerie vinte o fuochi di resistenza vile contro i vili, rodono tubuli e mucose e disfano difese, s’insinuano concorrono e discorrono in torme trascorrono razziano e rilasciano dichiarazioni, mentre fumano i sangui intestini e infine s’arrendono al lavorìo incessante del sabba di spie dentro gli organi mortali
Qui venne a morirsi Luigi bestemmiando qui tra le bombe tra la folla del mercato qui durante l’assedio che dura ancora osservato da dietro persiane intatte di case sventrate da dietro scrivanie zeppe d’eurodollari malguadagnati di funzionari internazionali da sventagliate facciate da granate da vite che si sfanno senza tregua - qui decise bestemmiando di finirla in un ospedale di guerra mentr’io, per non vederti così, ero da te venuto disertandoti
Al cielo invertebrato e molle le ceneri lucide di Luigi daranno l’ossa che gli mancano a tenersi su dritto con la schiena e a non lasciarsi cadere contro i nostri musi attenti a riguardarlo, poltiglia incatenata al celeste fetore, groppo di gole morso da delatori – che tu non possa riposare in pace e che tu venga a sollevarci da questa bega di seta ruvida, che ha sete di te
2005