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04/04/2011

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Carlo Bordini
Per Carlo Bordini, costruttore di vulcani

da "Europe", con un’ode in prosa di Roberto Roversi

domenica 27 giugno 2010

Esce, presso Luca Sossella Editore, I costruttori di vulcani, che raccoglie l’opera in versi di Carlo Bordini, poeta schivo, ma certamente interessante: attraggono lo sguardo di chi scrive soprattutto una semplicità assolutamente non ’semplice’ (anzi densa e complessa) e una sprezzatura ’anti-letteraria’ assolutamente personali e inconfondibili.
La rivista francese "Europe" ha recentemente dedicato a Bordini una sezione che ospita un’intervista al poeta realizzata da Francesco Pontorno con la collaborazione di Olivier Favier, che qui di seguito presentiamo.
A seguire una piccola ode in prosa per Bordini di Roberto Roversi

B>Alta semplicità

una conversazione con Carlo Bordini
di Olivier Favier e Francesco Pontorno

Se misuri nel mondo, in cuore, la delusione
senti ormai che essa non conduce
a nuova aridità, ma a vecchia passione.

PIER PAOLO PASOLINI, La terra del lavoro


OF: Mi ha scritto ultimamente Luca Sossella: “condivido il pensiero di chi non riesce a leggere un testo contemporaneo senza confrontare la bio-grafia e -logia di colui che scrive”. Sono molto d’accordo con questa idea, divenuta eretica dopo Proust e la semiologia. Infatti, la tua opera intera mi pare basata su questa sfida, di uno che fa della propria vita il campo stesso di una riflessione spietata sulla vita, e segue un filo di pensiero dialettico che era già quello del Rinascimento, nel senso che la riflessione non è altro che un viaggio incessante tra microcosmo e macrocosmo. L’azzardo include l’idea di oscenità, che diviene uno dei fondamenti della tua poesia: per te, mi sembra, la poesia dice quello che secondo i canoni dovrebbe restare fuori scena. Il poeta diverrebbe così l’ultima figura dell’eroe, qualcosa tra il guerriero e l’esploratore, una figura legata, in Italia, all’esperienza pasoliniana. Così, le zone d’ombra spiccano di più. Hai parlato della passione fino all’indescrivibile, passione amorosa o politica, anche del quotidiano. Ma non hai detto quasi niente dell’infanzia. La tua opera si fermerebbe solo sulle scelte di vita, le scelte vere insomma, l’unica cosa che, tirate le somme, si può e si deve assumere?

Credo di sì. Almeno nel mio caso. Ho rimosso la mia infanzia, e tutta la mia vita è stata il tentativo di superamento di quello che è stata la mia infanzia. Non parlo della mia infanzia perché essa è stata un buco nero, un buco nero da cui uscire per tentare piano piano di ricostruirsi o, piuttosto, di costruirsi. In fondo tutta la mia vita è stata questo. E anche la mia scrittura.

FP: La critica sembra esserti accorta di te solo da qualche anno, anche se scorrendo la bibliografia critica che ti riguarda – quasi tutta costituita da recensioni e interventi su periodici, e quindi militante – viene fuori un quadro già abbastanza articolato.
Sei finora stato, paradossalmente, un poeta sotterraneo ma pure in vista, e hai scelto di fare il docente e lo storico di mestiere proprio per poter continuare a fare il poeta. Diciamo che non ti sei arreso alle mode poetiche e diciamo che sei stato contemporaneamente visibile e invisibile. Hai un’idea delle cause di questo fluttuare della tua fortuna di poeta? Secondo te ci sono di mezzo ragioni di sola politica letteraria o anche estetiche?

Diciamo che non sono un campione di pubbliche relazioni, e su questo non voglio aggiungere altro. Ma a parte questo, c’è stato un periodo in cui quello che scrivevo sembrava non interessare i critici più importanti, quelli che facevano opinione o che comunque aprivano le porte delle grandi case editrici o delle recensioni che contano. L’unico importante critico che mi ha sempre appoggiato è stato Alfonso Berardinelli. Ho avuto inoltre la stima di un grande poeta come Roberto Roversi. A parte la spinosità del mio carattere, credo che questo disinteresse sia dipeso da una mia certa antiletterarietà (più apparente che reale) e da una mia certa supposta semplicità (anch’essa più apparente che reale). E, in fondo, da una certa irregolarità e atipicità che mi ha sempre caratterizzato. Non per niente amo molto i poeti irregolari; per esempio, del secondo Novecento italiano amo soprattutto Roberto Roversi, Amelia Rosselli e Pier Paolo Pasolini.
Adesso non è che la situazione sia cambiata molto. Se c’è qualcosa di nuovo che sta succedendo è il fatto che la mia poesia interessa alcuni giovani.

OF: Parli spesso di Apollinaire e lo citi come il poeta che ti ha influenzato di più. In che senso?

Credo che Apollinaire sia l’unico poeta che mi abbia lasciato una sua traccia di sé, che abbia lasciato la sua musica nel mio ricordo. Amo la sua lucidità coniugata con uno stile sognante e visionario, amo il suo essere nello stesso tempo poeta narrativo, saggistico e sperimentale. Ritengo che Zone sia una poesia che, riletta adesso, circa cent’anni dopo, ci spiega ancora con lucidità il mondo in cui viviamo, e ci insegna a essere tragici senza melodramma, a raccontare il reale facendolo divenire irreale, a unire il vissuto e il lirismo con l’allucinazione. Amo il lungo alessandrino di Apollinaire, il suo sapore di avanguardia. Quello che mi piace inoltre in Apollinaire è l’apparente semplicità del suo verso, che diventa forza olimpica. Zone è una delle grandi sintesi poetiche del ventesimo secolo. È una delle grandi interrogazioni che l’uomo si è concesso sul suo destino. È la poesia del trauma dell’essere moderni e del non poter più essere classici, del non poter più essere cristiani, dell’essere entrati nella civiltà delle macchine, di cui Apollinaire ha dato immagini molto più forti di quelle dei futuristi. Lucidità ed emozione si coniugano nella sua poesia, a mio avviso, con una forza raramente vista.

FP: Pasolini è l’unico scrittore a cui hai dedicato due brevi saggi. Perché?

Pasolini ha contaminato la sua poesia con linguaggi nuovi, che venivano dal basso, dalla vita, col linguaggio saggistico dei nuovi movimenti, e ha corso dei rischi, perché ha rotto gli schemi della tradizione letteraria italiana, un fardello che grava da tempo su buona parte della nostra poesia. La vocazione all’aulico da cui non riusciamo a liberarci e che è sempre stata rotta dai più grandi con scelte iconoclaste, sempre mal digerite dai custodi della tradizione. Pasolini ha anche rischiato di scrivere delle poesie brutte, qualche volta, e infatti le ha anche scritte, accanto ad altre bellissime, ma questo era il prezzo da pagare; perché alla base della sua operazione c’era l’idea di non inglobare nella tradizione aulica lo spirito di questi nuovi linguaggi, ma di creare un nuovo linguaggio. Ho sempre sentito l’operazione di Pasolini, soprattutto dell’ultimo Pasolini poeta, quello che supera e brucia i suoi residui decadenti ed estetizzanti, assai vicina a un’operazione analoga che ha compiuto Pirandello, precipitando nel basso, azzerando tutta la tradizione aulica che soffocava la drammaturgia italiana e creando un nuovo linguaggio teatrale.

OF: I tuoi riferimenti poetici – ne abbiamo citati alcuni – sono pochi, ma ossessivi. La traccia di certe opere di Apollinaire, di Eliot o di Gozzano si ritrova in momenti molto diversi della tua opera. Mi hai detto una volta che la poesia di Pound ti faceva pensare a un oceano. Mi sembra che tutte queste esperienze poetiche, viste da te, indichino un bisogno di superamento dei limiti “classici” normalmente accettati dal linguaggio poetico. Non è il caso, ad esempio, di Zone o della Terra desolata?

Apollinaire, Eliot, Gozzano, sono poeti che hanno forti elementi narrativi nel loro linguaggio, il che non contraddice la presenza di elementi di sperimentazione e d’innovazione. Gozzano è il padre della poesia contemporanea italiana, quello che ha provato a liberarci da D’Annunzio e che ha adottato uno splendido linguaggio basso. Io amo chi rompe i canoni, chi contamina, chi non si cura della tradizione e chi innova. E amo anche chi decide di scrivere in volgare. Gozzano ha scritto in volgare in un modo altissimo.

OF: Si potrebbe anche dire che la tua poesia sia in parte una sorta di risposta a queste letture mai dimenticate. Ma questa tua reazione non è mai stata una risposta generazionale, assomiglia molto di più a un dialogo fuori tempo – simile a quello operato dai classici rinascimentali con i grandi poeti greci e latini. Sembra che tu non ti sia mai preoccupato di far parte dell’ambito poetico italiano ufficiale, di essere visto nei gruppi, di prendere parte agli eventi. Hai detto spesso, inoltre, che non ti senti a tuo agio nella tradizione letteraria italiana. Cosa significa?

Ho scelto di fare la professione di ricercatore di storia per essere quanto più libero e indipendente dalle mode e dalle tendenze che percorrono il mondo letterario, e che sono spesso non soltanto sterili, ma anche fuorvianti. Ho preferito effettuare una lunga riflessione individuale. Lo studio della storia, poi, mi ha arricchito molto.
Per quel che riguarda il mio non sentirmi del tutto a mio agio nella tradizione letteraria italiana, devo premettere che il Novecento è stato per la poesia italiana un secolo d’oro. Ma nonostante questo sono sempre stato colpito dal fatto che la critica letteraria italiana sia ancora legata all’idea che in poesia esistano materiali nobili e materiali ignobili. Sono idee che sono state superate da parecchi decenni in tutti gli altri campi dell’espressione artistica: nella pittura, nella musica; si sono accettate le più grandi contaminazioni, si è accettata la musica concreta, l’idea di fare i quadri coi sacchi, ecc. In buona parte della poesia italiana linguaggio letterario e linguaggio aulico trovano ancora un loro punto di coincidenza e di compromesso. C’è inoltre un’altra considerazione da fare: il più grande poeta italiano, il padre della poesia italiana, Dante, col quale torturiamo per anni i nostri studenti, in Italia è un poeta isolato. I poeti italiani non si riferiscono a Dante. Ci sono stati grandi poeti del Novecento che hanno imparato l’italiano solo per leggere Dante; poeti pensosi delle sorti dell’umanità, poeti che si ponevano grandi domande etiche, e sono Eliot e Pound. In Italia l’unico poeta che si è sentito vicino a Dante è Pasolini.
Insomma, mi pare che il prevalere, e profondamente, dell’elemento apollineo su quello dionisiaco e una certa sopravvivenza del linguaggio aulico percorrano con regolarità la poesia italiana. Non dico che in questo ci sia nulla di male, ma non mi ritrovo molto in questa tradizione.

OF: Hai scritto che “I grandi artisti non sono soltanto dotati ma fanno anche un altro percorso, scelgono di fare un altro percorso, sempre interiore, e a volte anche esteriore”. Questo sarebbe, ad esempio, quello che fa la differenza tra Dante e gli altri poeti, pure bravissimi, del Dolce Stil Novo?

Io ho l’impressione che la distanza tra Dante e gli altri poeti del Dolce Stil Novo divenne davvero immensa, si ingigantì, quando Dante decise di seguire un altro percorso, cioè di andare nell’al di là e tornare. Un grande artista, naturalmente, deve essere dotato, deve avere del talento; ma non credo che sia sufficiente. Un grande artista è quello che decide di fare un viaggio. Un viaggio all’inferno e in paradiso. Inferno e paradiso come metafora, e inferno e paradiso interiori. Che si chiami Proust, o si chiami Pasolini, o si chiami Dante, o Baudelaire, è sempre una persona che ha deciso di fare un viaggio. I grandi artisti hanno sempre molto coraggio e a volte finiscono, come sappiamo bene, per lasciarci la pelle.

FP: Marco Giovenale ha scritto giustamente, “Bordini […] ha saputo e sa sciogliere in sintesi senza residui i sali di tre ampolle non sempre legate, a fine e inizio millennio: etica, politica, scrittura di ricerca”. Credi che l’engagement possa talvolta costituire la deriva della personalità dell’artista?

Riguardo all’engagement, credo che talvolta il dover essere prevalga sull’essere e lo distrugga. Questo è successo anche a me moltissime volte. Ho imparato a diffidare delle ideologie e del senso del dovere. La realtà è infinitamente più grande e più vera del pensiero. Per realtà intendo anche quello che noi siamo capaci di pensare e sentire liberamente. Il discorso dovrebbe essere approfondito. Credo che se noi esaminassimo tutti gli scritti degli autori che hanno fatto letteratura civile, engagée, (e sono stati in parecchi negli ultimi centocinquant’anni) avremmo delle sorprese, e scopriremmo che hanno funzionato solo quelli che erano fuori degli schemi, quelli che avevano dentro di sé qualcosa di eretico o qualche elemento di eresia (parola, questa, prediletta da Pasolini).

FP: La particolarità della tua esperienza politica trozkista, che pure in quegli anni fu comune a quella di tanti altri giovani, ha creato in te rispetto alla maggior parte dei poeti italiani tuoi coetanei una lacuna. Una lacuna culturale che ha impedito alla tua formazione universitaria di essere canonica, una lacuna biografica che sembra funzionare come una camera d’aria in cui però tu hai indubitabilmente vissuto, sebbene lontano dalla letteratura e dalla poesia. Tuttavia la tua avventura trozkista parrebbe un modo che scegliesti per non affrontare il presente, e il futuro, una possibilità in un primo momento considerata eterna di prorogare il passato. A parte i temi, i racconti, per esempio una poesia intensa come "Poema a Trotsky", cosa resta nella tua poesia di quella vecchia passione?

Sto scrivendo un romanzo che ha come titolo Autobiografia di un trozkista. L’ho cominciato negli anni Settanta e sto riuscendo a finirlo solo adesso. Questa esperienza politica, che in parte è stata una fuga dalla realtà, e in parte una fuga nell’utopia, mi ha influenzato moltissimo, sia in senso negativo che positivo. Cosa ne resta? Credo che non sarei quello che sono se non avessi fatto questa esperienza.

OF: Hai scritto un omaggio a Luigi Ghirri, l’anno della sua morte, intitolato "La semplicità" (pubblicato anche in Francia insieme al tuo poemetto "Polvere"). In queste due pagine vedo la chiave non solo delle stupende fotografie a colore del maestro reggiano, ma anche della tua poesia. Questo modo di definirti definendo l’altro, l’avevi già provato nel Coraggio a metà, il tuo saggio su Pasolini, del ’76.
Parlando della semplicità, hai detto molto di ciò che pensi della poesia, dell’oralità, del binomio centro-periferia, della classicità che non è classicismo. E hai trovato finalmente questa frase: “la poesia è un piatto povero”. Un’idea maturata, mi pare, nel tuo viaggio in Colombia. La tua storia non potrebbe essere quella della semplicità conquistata?

Una poetessa serba, Duska Vhrovac, mi ha detto recentemente che la semplicità è il punto più alto, non il punto più basso. È il punto di arrivo, non il punto di partenza. Credo che la semplicità possa essere una cosa molto complessa, un’architettura armonica che appare nella sua semplicità in quanto è formata armonicamente. Credo che l’arte classica sia così, per esempio. Quanto al fatto che la poesia sia un piatto povero, non so, mi impressiona il fatto che in un’epoca così tecnologica possa esistere ancora la poesia, che si può scrivere con una penna biro. Mi impressiona il fatto che nei paesi poveri ci sia più poesia che nei paesi ricchi. Ho constatato questo nel mio viaggio in Colombia, e ciò mi ha fatto un’impressione enorme. Non so cosa dirti della semplicità conquistata, è un problema troppo mio e per questo non ne so niente. Volevo invece parlarti ancora della Colombia, e più in generale della maggiore importanza della poesia e in generale della cultura che si riscontra facilmente nei paesi poveri, nelle periferie del mondo, che io sostengo siano in questo periodo migliori del cosiddetto centro. Vorrei sottolineare il senso del sacro che circonda ancora la cultura in questi paesi. In questi paesi è molto forte il senso del sacro. Molto più che da noi. È un senso del sacro che non passa attraverso integralismi. Probabilmente ogni società ha bisogno di un senso del sacro, e io ho visto in Colombia questo senso del sacro. Gente che piange perché ascolta una poesia, per esempio. Un senso del sacro che non passa attraverso una religione, ma attraverso una ricerca del significato dell’esistenza.
La poesia quindi è, in Colombia, parte di questa ricerca del significato dell’esistenza. E la poesia è quindi considerata sacra.
Mi è capitato diverse volte in Colombia di incontrare gente che dopo una lettura mi chiedeva cosa fosse per me la poesia, di gente che voleva sapere cosa pensavo della poesia, come facevo la poesia, ecc. Sono convinto che queste persone avessero apprezzato, naturalmente, la poesia che avevano ascoltato, ma che soprattutto volessero capire cosa c’era dietro la poesia. Ossia la poesia che avevano ascoltato era per loro la punta dell’iceberg di un mondo che essi volevano conoscere, scoprire. Non si trattava di scoprire il mio mondo interiore, ma di scoprire una chiave di interpretazione della realtà. È questo il senso del sacro. Il senso del sacro che noi abbiamo perso è questo.

OF: Nel poemetto Polvere parli molto spesso di detriti, e li assimili, anche, alle ferite. Ma da questi detriti, che sono ciò che resta della catastrofe, scrivi che potrebbe nascere – forse - una nuova forma di vita. Puoi spiegare cosa pensi al riguardo?

Secondo i più recenti orientamenti della fisica, i pianeti sono stati formati dai detriti delle esplosioni delle stelle, che si sono poi compattati. Il che significa metaforicamente, sul piano umano, che alle ferite che dà la vita (che spezzetta le persone, che crea detriti, e determina la rottura dell’unità classica) si può in qualche modo rispondere facendo dei propri detriti una forza. Compattandoli in una nuova unità. Questo è il senso del poemetto. Qualcosa sulla vita artificiale, o sulla civiltà, e anche sull’idea che la debolezza può essere una forza. E anche, o soprattutto, sulla possibilità di una rinascita. Questa idea può diventare anche cifra stilistica: attraverso la rottura del linguaggio, appunto, si può ricomporre un’unità. I frammenti, i detriti di un discorso coerente, sia in poesia che in prosa, possono esprimere bene lo stato delle cose.
Vorrei anche aggiungere un’altra cosa che riguarda la poesia nel suo strano rapporto con la scienza: sono rimasto assai impressionato dall’articolo della rivista Science che parla della struttura del DNA. Il genoma umano, non ripiegato, sarebbe lungo due metri, eppure riesce a entrare nel nucleo di una cellula che ha un diametro di un centesimo di millimetro senza creare nodi e grovigli. Gli scienziati hanno scoperto come questo fenomeno apparentemente impossibile accade: il genoma si ripiega fino a formare un frattale, ossia un oggetto geometrico la cui struttura ripete la stessa forma su scale diverse. A me sembra in definitiva che la poesia abbia qualcosa in comune con la struttura del frattale, perché ripete ed esprime simbolicamente a livello di microcosmo ciò che esiste a livello di macrocosmo. La Commedia dantesca può essere considerata un frattale, perché ripete sia a livello di impianto generale sia nella sua struttura il numero tre. E credo che questo si ripeta ed esploda nell’arte del Rinascimento. Devo aggiungere che questo non si può ridurre a uno schema, a una formula matematica. Dante è capace di esprimere nel microcosmo l’urlo e l’orrore della vita che si esprime nel macrocosmo reale.

FP: Quando hai compilato assieme ad Antonio Veneziani quella creatura antologica per certi aspetti frankensteiniana qual è Dal fondo. La poesia dei marginali, credevi davvero che chiunque potesse essere poeta?

In un certo senso sì. Recentemente ho letto una frase di Toscanini, citata da Leo de Berardinis: “Bisogna essere democratici nella vita e aristocratici nell’arte”. Mi sembra una frase bellissima. Ma a quell’epoca la poesia era realmente diffusa, faceva parte della vita. Circolava dappertutto. Quello che avveniva era poetico. Ingenuamente poetico. E tragico.

FP: Hai scritto in tre notti un libro di poesie d’amore, Strategia. Hai anche scritto un romanzo, Gustavo, in cui in cui un uomo si innamora di una donna da cui si è separato, e che è divenuta per lui un fantasma. Hai inoltre fatto la cronaca di un amore terribile nel tuo Manuale di autodistruzione. In tutti questi libri l’amore è visto come una passione che confina col trauma, in cui il trauma è sempre presente. Cosa hai da dirmi su questo?

Ho voluto mostrare come le fratture amorose abbiano una ripercussione nel profondo, non siano affatto processi indolori. I disamori sono processi complicati. L’amore confina effettivamente col trauma; spesso abita al suo interno. Anche questa cosa è talmente mia che faccio fatica a parlarne. Se non per interposta persona. Nel romanzo che sto terminando, per esempio, nonostante il titolo, l’amore, l’amore come trauma, ha un posto molto rilevante. Se non esprimesse determinati traumi, scrivere questo romanzo per me non avrebbe senso.

OF: Perché scrivi?

Scrivo per dare ordine alla mia vita. Per non impazzire.
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La inquieta e affascinante follia della parola
di
Roberto Roversi

Nelle pagine di prefazione (o di introduzione) di Francesco Pontorno è detto tutto ciò che si doveva dire, non c’è quindi bisogno di completare o aggiungere nulla, nello specifico e per l’occasione. Su queste pagine, posso semmai prendermi l’arbitrio, controllato, di stendere una breve riflessione semplicemente da lettore; su questo volume di Bordini che ha il merito e la forza (come è stato detto) di srotolare problemi, emozioni, violenze utili e riflessive.
Proprio cosí.
Denso fino all’orlo, induce a questa disposizione problematica e alle piú specifiche considerazioni, entrando nel merito.
Dunque:
è un breviario? è un libro di viaggio? un Wanderbuch con le relative implicazioni di sorprese e di risvegli intrisi di faticose consolazioni? Lo posso riavvicinare (si può dire?) alla dolorosa compulsiva agitazione letterariamente esaltante di Walser, al suo andare abbastanza intrepido, nelle sue passeggiate, sotto la sferza di una pioggia calda o fredda della vita? O è una autobiografia apertamente impietosa, tesa a scavare in ogni dettaglio delle giornate passate o perdute e a cercare di ritrovare una qualche unità con il dovuto vigore nelle regole ferree e sia pure dilacerate della scrittura?
Dico intanto che è un fiume. Un fiume che va e viene e si ripercuote, scorrendo, fra le rive. Ascolto il frusciare deciso delle parole (dell’acqua) sull’erba (le righe del testo, le parole che si aprono e si chiudono, si rinchiudono, scosse dal fiato dell’autore che le alimenta e non le lascia).
Il fiume, cosí, delle parole non lo posso rallentare con le mani degli occhi; posso solo inseguirlo. Lo leggo come un ampio racconto, meglio: resoconto, epico in versi. Un progressivo testamento steso con una rabbia quasi feroce, però dentro a una luce forte.
Posso dire: a cuore aperto? I vulcani, il loro misterioso cratere che sembra freddo e indifferente e che all’improvviso esplode, avvampa. Fuoriescono ceneri e fuochi, balzano a chilometri, in alto? Un Empedocle che ci gira intorno e si lascia, per fame di conoscenza, bruciare?
Il racconto, cioè la poesia, si alza si abbassa, respira forte. Sfoglio (e leggo) le pagine; alle volte sembra di strisciare le mani sul tronco di un albero che trasmette il brivido del passare del tempo; che ha trapassato e ha resistito a cento naufragi di inverni, alle tempeste (della nostra esistenza turbata).
Altre volte la pagina (le pagine) si apre e si ripiega docile, come un ramo nella fioritura di primavera, poi torna a distendersi, improvvisa, in un canto di qualche melodia; come fosse toccata (sfiorata) dalla memoria che sopravviene e adagio la esalta.
I buoni volumi di poesia hanno sempre, a mio parere, un contenuto esplosivo; perciò, sempre a mio parere, vanno maneggiati (letti, riletti) con cura, con lo scrupolo di una attenzione costante per ogni dettaglio.
Per arrivare al fondo, a percepirne il respiro interno, il mormorio (appunto) delle acque, il fuoco dei tramonti (appunto) il fiume Pecos e i bisonti che bivaccano vicino e osservano il cielo e non sanno che stanno aspettando la morte. Eppure sono scossi da un tremito. Nelle pagine densissime del prefatore è già detto tutto (lo ripeto) e si è portati a ben intendere, a capire.
Ripeto: il volume è buono nel senso pieno e autentico di portatore di umori, di valori, di rabbie e furori autentici (introiettati e distesi) . Aiuta, nella lettura, l’empito (trascinante) quasi eroico nei termini della pazienza e dell’infinita resistenza e insistenza sugli inestricabili (e affascinanti) lacci e legami che compongono (confortano o addolorano) una esistenza umana. Una vita vissuta.
Per richiamarmi all’inizio di queste righe, direi proprio che questo libro è una autobiografia in frenetico dettaglio. Lo è; come i libri che contano e che parlano. Facendosi ascoltare.


Da: www.absolutepoetry.org
Carlo Bordini è nato a Roma il 2 settembre del 1938. È stato ricercatore presso il Dipartimento di Studi storici dell'Università La Sapienza di Roma. Non è un poeta rassicurante e forse è un poeta diseducativo: lo illustra nella raccolta di poesie Sasso, pubblicato da Libri Scheiwiller nella collana Prosa e poesia diretta da Alfonso Berardinelli. D’altronde è lui l’autore del Manuale di autodistruzione, e il curatore assieme a Antonio Veneziani di una storica “antologia dei... bordini1