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04/04/2011

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Michael Horovitz
NOTE SULLA POESIA INGLESE
di Massimo Bacigalupo

Il Novecento inglese è stato ricco di poesia, e diviso in periodi ben caratterizzati, a patto di semplificare un po’. Si è parlato di anni ’20 modernisti, anni ’30 socialisti, anni ’40 neoromantici, anni ’50 isolazionisti, anni ’60 controculturali, anni ’70 nordirlandesi, anni ’80 marziani… Queste etichette corrispondono ai gruppi degli iniziatori sperimentali, cui seguirono i poeti trentisti dell’impegno (Auden), i bardi alla Dylan Thomas, i borghesi geniali alla Philip Larkin, gli anni ’60 rivoltosi a cui è legato Horovitz come i poeti di Liverpool amati a Genova (Patten, McGough)… Conosciamo meno i geniali nordirlandesi Heaney Longley Muldoon, e i freddini Marziani (Raine, potremmo metterci l’attuale poeta laureato Motion). Tony Harrison, isolato poeta delle miniere e di foschi scenari internazionali, l’abbiamo sentito a Genovantotto, e accompagnato a visitare la casa del suo amato Byron ad Albaro. Un altro isolato, Ted Hughes, è morto nel 1998, e ha segnato la poesia del secolo con le sue propensioni visionarie: di origine contadina, è un nuovo Lawrence della poesia, che non ha fatto parte di movimenti e si è sempre mantenuto legato al grembo possente della natura. Come si vede, un panorama con figure assai considerevoli sia per statura letteraria, sia per il loro ruolo pubblico. Harrison Hughes Heaney sono poeti bestseller, senza per questo essere facili o digestivi; Horovitz Mitchell e i liverpooliani sono maestri della lettura-spettacolo con accompagnamento musicale, sviluppano un genere ibrido, smentiscono l’immagine divulgata dell’inglese incapace di sciogliersi in pubblico. L’Inghilterra è un paese in cui le istituzioni della poesia hanno più sviluppo che in Italia, a partire dal ruolo contestato ma prestigioso di poeta laureato (divenuto dal 1999 decennale anziché vitalizio), e dalla fitta attività editoriale. In confronto negli Stati Uniti i poeti sembrano più isolati, meno organizzati. Così esiste un pubblico che si appassiona alle Lettere di compleanno di Ted Hughes alla moglie suicida Sylvia Plath, in effetti un’opera di alta suggestione, o che corre a leggere il poema anglosassone Beowulf nella traduzione di Heaney. Un pubblico che i poeti si sono formato, un pubblico che presta alla poesia la stessa attenzione che dà alla narrativa. Che esige opere di prim’ordine e, più spesso che altrove, le riceve.
Michael Horovitz discende da una famiglia di rabbini, emigrata dalla Germania in Inghilterra quando Michael aveva due anni (1937). A questo destino di esule si innestò negli anni ’50 la scoperta della liberazione visionaria di William Blake, il poeta romantico che era anche un idolo di Allen Ginsberg, che ne musicò la famosa poesia “Tyger Tyger Burning Bright”. Blake scriveva spesso del gigante Albione, padre spirituale dell’Inghilterra, e nel 1969 Horovitz intitola Children of Albion un’antologia di “Poesia dell’underground britannico”. Ma non è una rosea visione hippy alla Beatles la sua: nei versi c’è spesso amarezza e disincanto e ironia, e Horovitz prende le distanze dai “psicodelinquenti” che invocano Blake: “Svezzatevi e infilatevi in qualche altra culla”. Sarà interessante sentire, trent’anni dopo Children of Albion, l’instancabile organizzatore culturale tirare le somme del secolo inglese dal suo particolare punto di vista. Forse in comune con Ginsberg, dato il condiviso retroterra ebraico, c’è la figura del poeta-rabbino itinerante con l’organetto. Gli anni ’60 passano ma non il mondo fatato dell’ebraismo mitteleuropeo.
Michael Horovitz, poeta, autore di canzoni, sassofonista jazz-blues, vera star della poesia britannica, discende da una famiglia di rabbini, emigrata dalla Germania in Inghilterra quando Michael aveva due anni (1937). A questo destino di esule si innestò negli anni ’50 la scoperta della liberazione visionaria di William Blake, il poeta romantico idolo anche di Allen Ginsberg. Blake scriveva spesso del gigante Albione, padre spirituale dell’Inghilterra, e nel 1969 Horovitz intitola Children...