INTERVISTA AL POETA GIANCARLO MAJORINO
Barbara Pietroni: Senti, Giancarlo, visto che questa intervista, in accordo con lo spirito del sito "parola di poeta", è un modo per conoscerti sia come poeta, sia come uomo, vorrei iniziare con una domanda che mette insieme il vivere e lo scrivere: che cosa significa per te "accendere il fuoco dello scrivere ogni mattina"?
Giancarlo Majorino: Sì, questa è una frase di Musil in cui mi rispecchio. Mi alzo molto presto alla mattina, alle cinque, diciamo.
Mi alzo molto presto per un paio di vantaggi. Di solito c’è silenzio. Alla mattina poi sono un leone, dopo, rimbecillisco. La mattina sono sempre l’ira di Dio. Infatti per chi vuol trovarsi con me alla sera sono guai, perché non sono così vitale come quando mi alzo.
E la mattina, silenziosa più di altri tòcchi della giornata, mi immergo quasi sempre in grandi lavori come “Poesie e realtà”, o il poema che sto preparando dal '69, o più in generale con tutto ciò che costituisce continuità di lavoro.
Allora, la mattina mi metto qui, nella mia "astronave" e una volta ho in mente, immagino una situazione per il poema, un’altra volta mi interesso di un problema critico o filosofico, altre volte sono invaso dallo scrivere, un’altra volta ancora sento la necessità di rileggere un punto di Hegel, di Nietzsche, di Husserl, di Benjamin.
Cioè, è un tempo enormemente vario, non rinuncio a questa varietà che ho sempre avuto intorno a me, che è nella mia testa. L’assolvo a questo modo. E' per quello che sono sempre abbastanza felice nonostante tutto, il che sembra una pazzia. Ma lo sono. Tutte le mattine vengo qui e mi scateno in una direzione o nell’altra spontaneamente.
Barbara Pietroni: E’ anche un modo per tenere allenato il cervello?
Giancarlo Majorino: Di sicuro. Come uno che sappia fare ginnastica o degli sport, in cui una volta adopera le braccia, una volta le gambe, ecc.
Barbara Pietroni: ...e per tenersi del tempo per sé?
Giancarlo Majorino: Mah, si può dire. Se poi però questo tempo diventa pensiero e scrittura che girano...
Barbara Pietroni: Adesso raccontaci un po’ della tua giornata. Anzi, prima, dicci qualcosa della tua casa, per quelli che non l’hanno mai vista.
Giancarlo Majorino: La mia casa è sempre stata piccola. L’Enrica che vive con me da cinquant’anni potrebbe dirti molte cose, la sa lunga (infatti a me piace usare la parola “con-sorte”, cioè ha la mia stessa sorte, il mio destino, se vuoi. Meglio di quei nomi terribili, come moglie o signora, che anche lei non vuole mai che vengano usati).
E' una casa piena di libri, ma anche di pitture, per lo più dipinti regalati da amici. Anche i CD di musiche sono di miei amici, ma anche in generale e soprattutto, forse con un’accentuazione per la musica del Novecento, quindi Britten, Stravinskji, Prokofiev, Schönberg, Berg, cioè questi grandi musicisti che ancora pochi conoscono.
Una casa che mi è molto naturale fatta in questo modo. Non c’è una sala. Cioè c’è una specie di soggiorno, c’è una stanza dove lavoro (io prendo sempre la più bella -con condiscendenza dell’Enrica- che abbia una grande finestra, che faciliti un po’ questo essere a parte rispetto ai trambusti eventuali altrove). Le stanze sono senza porte, come vedi, salvo il bagno e quindi c’è una grande circolazione.
C’è da dire anche questo: che mi sono anche abituato ormai da parecchi anni a scrivere, al termine della notte, con la pila, per non svegliare l’Enrica nell’altra stanza. Cercando di non far rumore. Capita spesso che mi svegli alle cinque, ma mi alzi alle sei, sei e mezzo. Il rischio è di svegliare l’Enrica, il che succede: è da un po’ che anche lei dorme poco.
Io, torno a dire, non sono appassionato della casa in sé, figuriamoci poi della proprietà, che mi farebbe ridere ancora di più. Io avrei vissuto anche in albergo, francamente. Purché ci fosse questa stanza completamente a sé, piena di cose e di libri. Per cui come è adesso è quello che si dovrebbe dire “una brutta casa”, è quello che si dovrebbe dire “molto periferica”. E lo stesso prima, in via Melloni. Erano tutte così. Sono degli studi più che delle case. Per fortuna che anche l’Enrica la pensa così e quindi non abbiamo problemi al riguardo.
Barbara Pietroni: Sto guardando questo mobilone nero, con chiavistelli di ogni sorta...
Giancarlo Majorino: (ride) Qui c’è il poema che chiudo tutte le volte a doppia mandata, perché ho questa piccola ossessione idiota: che possa in qualche modo essere perso, persino forse visto, dato che finora non l’ha visto nessuno se non io e in modo estremamente ridotto e parziale l’Enrica.
Tant’è vero che ho preparato un quadernetto (è un po’ da ridere ma insomma...), una volta che non stavo bene -mi capita abbastanza spesso di sera o di notte, non sono mai felice io la notte, ridivento felice col chiaro come i bambini. E allora ho detto: “Ma insomma se ad un certo punto io scompaio sul serio..." (L’Enrica naturalmente, quando dico così, dice: “Ah, muoio anch’io insieme a te e basta”. E io le rispondo: “No, tu devi restare viva, perché devi pubblicare e portare all’esterno questo poema, che ha 34 anni"). Comunque, ho preparato un quadernetto, che lei non vuole vedere mai, che è sepolto lì da qualche parte (e indica una pigna di fogli, libri e quaderni sotto la finestra), in cui dico: “Se per caso mi venisse all’improvviso il raffreddore”... all’interno c’è una lista delle mie opere in corso e la loro collocazione (perché l’Enrica non sa neanche bene del tutto dove andare a cercare).
Allora, questi quattro armadietti neri chiusi a chiave raccolgono appunto il poema, questo poema di nove libri... Ho promesso che il primo libro uscirà nel 2004. Dopo però gli altri possono anche non essere pubblicati singolarmente. E’ solo il primo libro che deve essere a sé, per varie ragioni. Dopo, ne posso fare uscire anche due o tre, non vorrei “uscire” prima io di loro! Se comincio ad aspettare due o tre anni per ciascuno, dunque sono nove libri, diventerebbero circa 30 anni. Anche nelle mie continue e ottimistiche visioni non è semplicissimo che arrivi a 100 anni. Per lo meno, che ci arrivi con la lucidità. C’è anche quel problema lì, che non è solo di morte o di malattie gravi, è anche di “come ci arrivo”.
Barbara Pietroni: Dunque sono 34 anni che lavori a questo poema, dal 1969...
Giancarlo Majorino: Sì.
Barbara Pietroni: ...e in questi 34 anni hai pubblicato libri di poesie, che mi sembrano estremamente diversi l’uno dall’altro. Il poema ha risentito dei tuoi, chiamiamoli così, “diversi modi di scrivere”, che poi sono anche diversi modi di essere? Insomma, come hai affrontato, se l’hai affrontato, il rischio di una non omogeneità di stile?
Giancarlo Majorino: Questa è una domanda molto insidiosa, nel senso che forse è lì il problema più importante relativo al poema. E’ quello che in qualche modo fa sì che mi ci rimetta ogni volta. Io sono arrivato un po’ a questa conclusione, che come per la poesia in assoluto –questo poema ha anche alcune parti in prosa- il criterio di scelta sarà e deve essere sempre quello della bellezza. Se una cosa è bella la tengo, anche se avesse lo stile di trent’anni fa. Pure per le trame e i personaggi si hanno complicazioni non da poco. Te ne segnalo qualcuna: esistono personaggi di lunga durata, a volte addirittura presenti fin dall'inizio, e personaggi nati da poco; esistono inoltre personaggi che scompaiono nel lungo farsi poematico. E' anche da considerare che io stesso, nel corso di un tempo così lungo, posso essermi modificato (principio che mi è sempre stato caro al riguardo può esprimersi in una formula di questo tipo: continua e cambia, continua e cambia; un principio che investe l'intera struttura dell'opera). Siccome poi parecchi di questi personaggi hanno avuto origine da persone incontrate e spesso frequentate, anche a fondo, un'altra formulazione che mi interessa sarebbe: "personaggi, persone, pers", un trittico di nomi che può chiamare di volta in volta ora il personaggio, ora la persona da cui è nato, ora con quel misterioso "pers" l'indicazione di una sparizione tanto del personaggio quanto della persona.
E' un’impresa talmente, come dire, “eroica” che sotto altri aspetti sono continuamente eccitato all’idea di farla, di starci dentro. Pensa che l’ho cominciata molto blandamente, doveva essere di tre libri all’inizio, doveva iniziare in un certo modo, poi esisteva “Un’interruzione: il ‘68” ed infine quel che succedeva dopo. Teniamo presente che nasce nel ’69, io ero quindi stato molto colpito dal ’68 e soprattutto da alcune speranze che c’erano allora. (Poi pian piano mi sono reso conto che magari le speranze del ’68 erano in parte decadute. Solo in parte: basta pensare al modo nuovo con cui le donne, le ragazze possono guardare se stesse: parte da lì, da quelle lotte lì. E piano piano si è gonfiato direi inevitabilmente).
Barbara Pietroni: Sfatiamo un po' quell'immagine mitica del poeta che passa tutto il suo tempo a pensare, a scrivere e a fare chissà che cosa di irraggiungibile e inimmaginabile. Come trascorri le tue giornate, Giancarlo?
Giancarlo Majorino: Beh, come dicevo prima, mi alzo molto presto e lavoro al poema o è il poema che mi lavora, insomma. Interruzioni brevissime della giornata, che arriva fino alle 14.00, per il caffè e il/i giornale/i, il ritiro della posta, nonché le telefonate -tra cui quelle della Barbara da Atene (ride)- che passano il vaglio, giustamente severo, dell'Enrica o della segreteria telefonica; il pomeriggio, dopo una sosta piena di sonno o di niente, cerco di spassarmela per il resto della giornata e alla sera (parlo male della televisione ma la vedo quasi mai). Naturalmente, sempre che non debba andare alla NABA o in qualche luogo di presenza necessaria.
Questi modi accadono sempre, quindi pure il giorno di Natale, l'ultimo dell'anno, il primo dell'anno, Pasqua, Ferragosto, ecc. L'ultimo dell'anno, per esempio, consiglio agli studenti di passarlo leggendo e concentrandosi, dedicandosi invece alle orge il 28, 29, 30 e il 2, il 3 dell'anno successivo.
Barbara Pietroni: Quindi la tua giornata è divisa tra "scrivere" e "vivere"...
Giancarlo Majorino: Non sento questa divisione; anzi, non a caso uso scrivere "viverescrivere" attaccato, per far capire che per chi scrive non è semplicissimo distinguere. Siamo proprio al fatto dell’immaginazione. Spesso immagini qualcosa, spesso gli scrittori hanno un’immaginazione prescrivente, diciamo. Si preparano poi ad un’adozione di ciò che hanno immaginato. Altri no. Anche qui però il sogno che si sia così liberi da non far diventare subito gli scatti immaginativi materiali per lo scrivere.
Ecco perché lego vivere a scrivere, perché vivere non è meno importante dello scrivere, forse addirittura di più. Quindi sempre quella centralità della vita, secondo me, che va valorizzata a fondo anche in chi fa arte, chi fa cultura...
Barbara Pietroni: e perché il vivere è prima dello scrivere?
Giancarlo Majorino: Perché in un certo senso è più facile che questo contenga quello o non viceversa. Anche qui poi ci sono tutte le leggende, le storie, per cui, non so, Dante, Shakespeare, ecc., questi grandi creatori non erano gente chiusa in casa che pensava solo alle rime. No, era gente piena di vita, in qualche modo già singoli di molti ad alta potenza.
Naturalmente dire “viverescrivere” rischia sempre di essere preso per estetismo, estetizzazione. In particolare oggi che contano molto i personaggi, la vita è spettacolo, come diceva Debord ne “La società dello spettacolo”, un libro molto difficile ma bellissimo. Dove si dice che ormai tutta la vita è spettacolo, ognuno fa le cose come se le mostrasse, per cui tutto è falso, è rappresentato, recitato. Ecco, il rischio estetizzante – oggi è frequente – è che uno “fa” l’artista. Per lo più in discipline che non diventeranno mai arte, perché sono troppo utilitaristicamente orientate: dalla forma delle automobili alla moda, la pubblicità, ecc. Cioè sono tutte vie di mezzo. E allora uno che lavori all'interno di queste discipline e che per di più faccia l’artista fa ridere! Invece oggi, purtroppo, spesso la ricerca si addensa intorno a tali vie di mezzo. Anche perché c’è una trascuranza di piacere e di sapere riguardo a musica, filosofia, poesia. Se ne sa niente. Pazzesco!
Io tra le varie cose ho fatto anche dei corsi di aggiornamento per gli insegnanti sulla poesia. Quel che mi colpiva di più è che questi erano tutti lì a testa bassa che prendevano appunti. Tu figurati, gente della mia età, gente che insegnava magari da vent’anni, non sapeva cose elementari. Da noi vai in una scuola, ma anche all’università e spesso Montale passa per una giovane speranza. Capisci la follia assoluta? Straripano due modi di "sconoscenza", diciamo, estetica: una, centralizzante "arti" che nel migliore dei casi sono "arti minori"; l'altra mai davvero aggiornata.
Barbara Pietroni: Ecco, ma come addentrarsi nella poesia, nella cultura, nelle meraviglie dell'arte senza rimanere in balìa di falsi maestri e di condizionamenti vari? Hai citato prima Debord...
Giancarlo Majorino: ... bisognerebbe, come facevano i "Quaderni piacentini", rivista assai vitale per un lungo periodo di tempo, addirittura avviare due rubriche, una intitolata "libri da leggere" e l'altra "libri da non leggere".
Barbara Pietroni: ...non sperare di cavartela così... dimmi davvero qualche titolo!
Giancarlo Majorino: Intanto per cominciare, è meglio rileggere che leggere; cioè misurarsi non solo con i classici ma anche con i classici della contemporaneità, «purché il testo si configuri quale mondo a sé e, al contempo, partecipe di un più vasto mondo non solo letterario e le sue invenzioni siano fatte agire tanto in un loro coerente corso, quanto in comparizione con l'andamento del nostro vissuto. Allora sì che certi punti cruciali di "verità della realtà" possono illuminarsi e parlare, dal rapporto tra singolo ed entità sovrastanti in Kafka alla valorizzazione piena del passato nel e per il presente in Proust, dal sogno di collegare interiorità e ragione in Musil alla vivificazione attimo via attimo di ciascuno tra gli altri di Joyce, dal tentativo dei quasi opposti Eliot e Brecht di rischiosamente contrastare il crescente dominio dell'ideologia al mantenimento della libertà ad ogni costo dell'artista e della persona in Mandel'tam, dall'anarchia terra a terra di Céline all'intransigente ricerca espressiva del solitario Beckett e al confronto aperto con certi problemi diffusi della narratrice Lessing... Elenco inadeguato; rimane il sogno di un itinerario spostato e un invito al contatto diretto con le opere (e delle opere integrali, non di frammenti; e degli originali, non di traduzioni)».
E per finire in bruttezza consiglio vivamente "Poesie e realtà 1945-2000", Tropea. Scherzi a parte (ma si scherza a metà), considerando la bambinizzazione in corso, oltre che sul piano letterario converrà portarsi sul piano, come abbiamo fatto con Debord, della riflessione critica e della analisi contemporanee...
Barbara Pietroni (guardando l'enorme cupola di libri che ci avvolge): non vorrai citare tutti questi libri...
Giancarlo Majorino: Una lista di preferenze è assurda, anche perché vi sono autori con i quali esiste un colloquio permanente e vi sono autori richiamati solo in alcune circostanze, solo per alcune esigenze... (pensa)
Barbara Pietroni: Beh, potresti però riprendere alcuni "slogan", scusa il termine, presenti nella chiusura di "Poesie e realtà 1945-2000", che possono essere un'ottima base di analisi critica, di orientamento...
Giancarlo Majorino: Sì, certo. Per esempio:
-recitazioni insostenibili di felicità e di senso
-applausi dai muri sembrano risuonare per chi rincasi sano e salvo
-stalle di realtà (i midia)
-il denaro, questo equivalente imbattibile
-preme dire dove siamo
-intrico di elementi reali e fumo
-predisporre la criticità a sistema nervoso centrale
-l'equazione trionfante, felice-facile
-si ha sempre meno tempo di diventare intelligenti
-l'andamento fioccato delle vitette
-la dittatura dell'ignoranza
-sistema di distribuzione eteromoventesi e automoventesi
-macchine da presa traspiranti scuciti sprazzi di verità
-il vento confinante con il risaputo di una canzone
-una ricerca di verità che risalga al concreto di quello che c'è
-un'ibridizzazione di temporalizzazioni fascianti
-siamo nel mezzo di traiettorie a gorgo, piedi nel buio, erme
-la gioia ritrovata dei contatti senza limite
-realtà parecchio più sdrucciolevole del manifestato
-da vanificare ogni frontalità giudicante
-per capirci qualcosa, sempre nel postulato dell'ignoranza in cui sballottiamo
-l'arte, una sorta di aria dell'aria, distrugge tane di stereotipi
-numerose migrazioni, amari viaggi
-il colto da tifo
-l'uscire delle donne dalle caverne casalinghe, lento moto lungo, ostacolato
-l'affascinante insieme di specchi che abita il secondo sistema dei segni
-poesie, esche per il bisognoso d'intensificazioni durature
-sotto, dovunque, un fluire sostanzioso, denso, intrigante di voci
-le guerre nascoste del lavoro, del dominio, del denaro
-entro le burrasche del non ancora conosciuto
-quell'aria di comunanza che rappresenta il moto profondo dell'epoca
-bambinizzare
-l'unica vita di ogni essere umano, la pedana di tutto
-fitte monadi temporali e scatti lucenti di musica e senso frammischiati
-uno srotolarsi di lucenti ascese e ripetizioni
-esserci esente da mitologie
-creatori di salienti
-gli impigliati
-l'orrendo accaduto e armonie musicali tanto amabili
-l'eccitato acquisto
-il ritratto a olio dello scienziato nel suo laboratorio
-l'essere in balìa
-quanto propinato
-transito di tutto
-respira o soffia quello che c'è
-la televisione sωbito sul ponte di comando
-giorno dopo giorno essere non sepolti
-un ricco corollario di fumogeni
-sempre alla rinfusa
-promozioni e spinta al consumo e al consenso trasformano le ossa del periodo
-la felicità espone una sua imprevista anima di oggetti
-contornano il perlustrato e il perlustrabile con acutezza priva di sensi di colpa
-toni tali e quali, senza filtro
-un'agenda meditata
-cavità di spostamento
-"ora/ chi ha sempre vissuto un po' troppo poco/ trema - è certo"
-la storia filante la dice lunga sulla potenza generale sottostante
-frequente il ricovero nelle carte antiche, serenamente non concorrenziali
-una lingua composta di scatti luce mediale
-nel piovigginare ininterrotto di uccisi e uccisori alle 20.30
-elettrica fragilità
-a quando lo zainetto per adulti?
-la più viperina sibila: che fai della tua unica vita?
-un caotico affastellarsi di fatiche, di violenze, di fraintendimenti
-l'affiorare di lemuri retro chi parla dagli schermi
-le meraviglie della materia (territori ignoti di rilevanza incommensurabile che escono da nubi, nebbie, gabbie)
-la miseria, unico vero inferno
-schiuma una conflittualità senza limiti e senza armistizi
-mostrare e parlottare
-robottini
-che solo nell'esser tali respiriamo senza affanno
-il campo vigente dei reali e dei possibili
-chi capisce è bravo; bravo è chi colpisce
-il cancro del nuovo
-tentando ricavare lumi da corsie
-il milione di scriventi versi o righe a capo non acquista; ìmpera il fai-da-te, hanno mangiato la foglia
-la gloria dei versi e l'apertura massima all'esistente dell'individuo, però protendentesi alla pari (Sereni)
-centralizzata la terra di nessuno, qui si agisce
-feroci momenti, frequenti scontri tra bestie (Riccardi)
Barbara Pietroni: Parli spesso riferendoti ad una strana concezione, che ciascuno sia un singolo di molti. Che cosa significa?
Giancarlo Majorino: "Singoli di molti" significa che ciascuno non è semplicemente un’entità completamente a sé. Sbaglia chi lo ritiene. Va incontro a un guaio oltretutto, proprio per la felicità, diciamo. Ma anche chi vi abbia reagito, come tutta l’ideologia, poniamo, umanitaria in genere, comunista, ecc. pensando che noi siamo solo parti di un tutto, tiene troppo in sott'ordine una cosa essenziale che è la persona in sé. Da qui questa concezione, nel mio caso davvero sperimentata, comprovata frequentemente. A volte raffiguro me stesso come una specie di vampiro buono. Ciascuno di noi quindi si è formato e si forma ininterrottamente attraverso altri.
Purtroppo la filosofia e altre discipline trascurano ancora questo fatto, che a me sembra della massima importanza, perché ha conseguenze enormi, in vari ambiti. Pensa cosa potrebbero diventare l’odio e la guerra in una concezione del genere. Pura cretineria, pura assurdità. Con gli altri bisogna entrare in rapporto, non ucciderli o usare violenza. Chi usa violenza già sbaglia di per sé. Il dato veramente elementare, con grandi possibilità di sviluppo è che la vita di ogni singola persona potrebbe così diventare la base di tutto. E’ un segreto ancora... Partire da lì: ogni vita è degna, ogni persona è degna, ogni cosa che leda la singola vita, la vita di ciascuno, è colpevole. Pensa che cosa succederebbe dei bombardamenti, del terrorismo, degli assassini... Tutto sbagliato. Ma non puoi correggerli aumentando le misure di sicurezza. Si dovrebbe piano piano, spostandosi dalla ronda delle false soluzioni, far ruotare tutto intorno ad una cosa del genere. Naturalmente è complicato, perché non siamo abituati a questo e anche perché esistono interessi potenti che prosperano proprio su orrori del genere.
Persino la morte, voglio dire, che è la cosa più tremenda, ineluttabile, può ricevere una luce parziale da tale concezione, perché ciascuno in realtà – anche dopo morto – continua a vivere, continua a vivere attraverso quello che ha fatto, che ha detto, i suoi gesti, i modi del vestirsi, qualunque cosa. Siamo tutti imitatori continui. Facciamo finta di no, perché ci sembra una cosa secondaria, derivata, invece è una cosa bella, fondamentale. Ci imitiamo in continuazione. Per esempio, è morto recentemente un mio amico carissimo, un filosofo, Luciano Amodio ed io mi accorgo continuamente di usare suoi gesti, di avere confrontato e di continuare a confrontare mie idee con le sue, a volte addirittura copio anche i toni di voce, eccetera, eccetera, eccetera. Questa grande trascuranza e noncuranza che aveva per le carriere e il successo si sono incrociate con le mie. Io sono così, ma sono stato rafforzato dal fatto che le avesse lui. Quindi non esiste solo – come è detto in maniera stupenda dal Foscolo – un’eredità d’affetti. Non è solo che si vive in coloro che si è amati e che ci hanno amati, ma proprio in tutti quelli che si sono incrociati con noi e viceversa.
Ecco “l’unica vita” è un concetto – io uso “concetticona” più che “concetto”, perché mi pare che oggi siamo così abituati all’immagine, è così evidente l’aspetto iconico della realtà, che a me piace pensare che i pensieri per essere davvero tali non possano essere più soltanto pensati, scritti o letti, ma anche espressi in un’immagine in sé evidente. I miei versi credo che tendano conseguentemente a suscitare immagini impastate di pensiero. E non è una debolezza, credo. Quindi i “concetticona” sono questi concetti del pensiero, che però mostrano anche, non argomentano solo, mostrano. Ecco, “l’unica vita” è per me un concetticona altrettanto forte. Ho sempre pensato che esista un’unica vita; sono ateo. La conseguenza però è che ogni minuto dell’unica vita va valorizzato al massimo, proprio perché è l’unico. Questo momento, il 23/4/2003, è l’unico che abbiamo. Siamo ancora totalmente disabituati a questa cosa, che invece secondo me va incorporata. E' quello che mi sforzo di fare in ciò che scrivo, in ciò che dico, in ciò che insegno. Non un’unica vita per forza in senso ateo. Ci possono essere i religiosi, i non credenti, non è questo il problema...
Barbara Pietroni: Ecco, su questo punto rimango sempre un po’ perplessa, devo confessarlo. Sono ormai anni che partecipo alle tue serate di lettura, alle tue conferenze, alle tue lezioni e posso dire di avere acquistato familiarità con questo concetto o concetticona, come lo chiami tu, eppure mi risulta sempre un po’ difficile. Difficile non da capire a livello logico, ma da "avvicinare". Che càpiti di assorbire modi di fare, di parlare di altre persone è indiscusso. Anche a me è capitato spesso. Quello che mi gira in testa sotto forma di un grande punto di domanda è relativo al grado di incidenza sul singolo individuo di questi elementi-staffetta (come li definisci tu) che passano da una persona all’altra. Molti, secondo me, sono profondi, altrettanti però sono superficiali, sono meteore che toccano e scompaiono. Ma forse questo mio pensare deriva dal fatto che non possiedo quella tua bellissima concezione della superficie...
Giancarlo Majorino: Io credo che incida a diversi livelli, su diversa scala. Uno dei miei versi che girano da sempre è quello che “la superficie non è l’opposto della profondità, ma la sua vice”. La profondità è sempre collegata alla superficie. Allora come mai un gesto ha incidenza davvero? Perché un gesto vuol dire molto. Anche in questo caso non siamo abituati a fondo. Per esempio, Kafka, che è stato proprio un grande maestro della letteratura, ma non solo della letteratura, ha quasi sempre personaggi di cui non chiarisce mai che cosa pensano, ma fa vedere i loro gesti e a volte i loro vestiti, perché ritiene che siano delle spie profonde di quello che uno è.
Per cui a volte sottovalutiamo cose enormemente decisive. Naturalmente ci vuole anche un’immaginazione libera e molto ricca. Per quello che questo tempo è veramente mortificante e soprattutto i giovani, ma anche gli adulti, non sono allenati ad usare l’immaginazione, che è una facoltà stupenda. Non vuol dire il sogno ad occhi aperti del distratto che casca in un tombino mentre legge o guarda per aria. Vuol dire che i possibili stanno intorno alla realtà, ci sono sempre. Io e te siamo qui, potremmo andare da un’altra parte, potremmo fare altre cose. Quindi, una realtà che ha cinque o sei possibili, diciamo, possibilità se preferisci. Tutta la realtà è fatta così. E l’immaginazione aiuta a generare e a riconoscere le possibilità. Uno tutto dritto che si mette uno scopo e lo compie, rimuove un’infinità di cose. Scegliendo uno, perde due, tre sette, perde dieci, perde venti.
Barbara Pietroni: Hai sempre avuto una grande immaginazione, Giancarlo?
Giancarlo Majorino: Pensa che quando ero piccolo a volte raccontavo a mia madre delle storie, perché avevo già una grande fantasia, e dicevo: “Allora, arriva un LUPO...” ed interrompevo di colpo, dicendo: “Mamma! Ho PAURA!” Cioè mi ero spaventato di quello che dicevo io!
Barbara Pietroni: Questi sono i poteri dell’immaginazione...
Giancarlo Majorino: Sì ed io, già da allora, avevo un’immaginazione davvero sfrenata. Ma ce l’hanno in tanti. Poi anche i bambini spesso li castrano su queste cose così essenziali. Pensa adesso con che velocità i genitori angariano i bambini con il piano, l’equitazione, cioè tutte queste caselle obbligate, nelle quali uno guadagna pochissimo anche come piacere. Invece di dare grande spinta agli aspetti immaginativi.
A proposito di quando ero bambino, non so se te l’ho già raccontato, piangevo quando mi imboccavano, perché poi tra un cucchiaino e l'altro c'era un intervallo. Così hanno iniziato a darmi da mangiare con due cucchiai.
Barbara Pietroni: Eri un “voglio tutto”.
Giancarlo Majorino: Voglio tutto, il signor godi godi. Erano tutti sinonimi di questo tipo. Quindi l’unica vita viene ad avere una centralità ogni momento. E anche ogni persona. E' un doppio essenziale. Lo sai che avendo io una "cataratta" di anni – che non ti dico e spero che tu non li sappia... invece li sai – mi sono stufato di contare gli anni e in base a questa concezione mi sono messo a contare quanti minuti ho. La cifra è diventata spaventosa: quasi 40 milioni di minuti! Però mi piaceva l’idea, tant’è vero che non so in quale conferenza ho detto anche che ci potrebbe essere una riforma dell’anagrafe, se invece degli anni ci si basasse sui minuti. Sempre per dare questa centralità a tutto. Ho l’impressione spesso che le persone lavorino d’inerzia, di tran tran, non godano a fondo la loro vita.
Barbara Pietroni: Se ogni momento e ogni persona diventano centrali, allora inizio a spiegarmi questa tua particolarissima "accensione d'entusiasmo derivante dall'apparizione di più esseri"...
Giancarlo Majorino: Se dovessi dire la radice di quel mio atteggiamento su ciascuno come singolo di molti e sull’importanza dell’unica vita, dovrei probabilmente risalire all’infanzia, a quando cioè arrivava mia madre e mi toglieva dal buio, dalla paura, da ogni tipo di immaginazione brutta. Però insieme a mia madre arrivavano tanti altri, cioè mio padre, parenti e amici. La casa di mia madre era una casa sempre affollatissima. Forse è lì la vera radice. C'è un'altra radice che conosco meglio, diciamo: sono sempre stato entusiasta di ogni persona, perché mi vedo simile-dissimile. Probabilmente è una forma egoistica rovesciata, una forma di narcisismo, forse il fatto che dicono che sono simpatico, cioè faccio abbastanza in fretta a mettermi in rapporto con le persone. Ogni persona mi accende d’entusiasmo. Ma a volte non riesco ancora a capire come mai, mi sembra un’idiozia. Cioè vedo un negoziante, vado dentro e vedo una cosa che mi entusiasma, gli salterei addosso, lo sbaciucchierei.
Barbara Pietroni: Ti entusiasma il negoziante, non le cose esposte...
Giancarlo Majorino: (ride) Sì, il negoziante; delle cose me ne frego sempre completamente. Le persone. Tu per esempio sei davanti a me. Metti, questi occhi, gli occhi che sono il tunnel tra l’interno e l’esterno. Io, intanto che ti guardo, immagino, non solo come pensano tutti i maschi-caschi, che ti porto a letto, che ti sto insieme, ecc. ma... -(ride) i maschi-caschi fanno sempre così- ma tutto quello che sei, che pensi. Facciamo finta che non ti abbia mai conosciuto, sono qui che immagino con chi sei, con chi vai, che cosa hai fatto la sera prima. Per ognuno io ho questo entusiasmo, come davanti, non so... (pensa) ai bambini, per la maggior parte della gente. E' un esempio però che non vale per me: io per i bambini non ho questo entusiasmo, nel senso che mi sembra che lì sopravvengano idealizzazioni. Perché i bambini sono singoli di poco, capisci perché non mi interessano? Possono essere graziosissimi, ma non hanno quel vissuto che mi appassiona, un vissuto di storia, di esperienze, di rapporti.
Io ho trovato una cosa del genere in Joyce. Lui le chiamava “epifanie” ed erano eccitazioni, entusiasmi. Solo che per lui non erano solo le persone, ma anche le situazioni. E in questo ho trovato nel mio amico, Luciano Amodio, una cosa non identica, perché lui poi si appassionava di molte cose, anche lui, anch’io in fondo leggo volentieri, scrivo molto, però i viventi mi sembrano ancora più degni di simpateticità, di ardore conoscitivo. Questa è anche la ragione per cui mi piace insegnare. Quando ho smesso, ne sentivo un po’ la mancanza.
Quando ero piccolo mi dicevano: “Ti metto in una strada dove non passa nessuno”: sembrava una condanna eterna. L’Enrica dice che me l’ha detto lei, secondo me invece me l’ha detto mia madre, me l’ha detto da piccolo. Invece, come dice uno dei miei libri importanti: "La solitudine e gli altri". Cioè la libertà per me consiste nel poter essere solo e poter essere con gli altri, tutti e due. Per questo che Milano non la lascerei mai, perché è una città: semmai per una città ancora più grande. A me piacciono le città, perché hai questo continuo di possibilità, d’incontro, d’incrocio, anche solo vedendo le persone. A volte vado sul metrò e sono contento. Pazzia. Tutti dicono: “Che caldo, che puzza, che brutto!”, io invece sono contento, perché sto tra "similidisimili", ci facciamo compagnia.
Barbara Pietroni: E’ per questo che non ami tanto la natura, perché è un po’ isolata?
Giancarlo Majorino: Esatto. La natura la vedo quasi in regressione, come la terra, la morte. Faccio fatica con la natura a leggerla come vitale, generante: anche se in fondo la stessa natura ha i propri cicli. Però li ha molto rallentati e non li ha mai così corrispondentemente vivi, diciamo, come le persone. Per me. Infatti ho scritto una prosa intitolata “Qui e altrove”, con uno scultore che non c’è più, Alik Cavaliere, in cui io mi ero proprio messo davanti ad un albero e mi domandavo che cosa cavolo fosse questo albero. Anche ne “La solitudine e gli altri” c’è. E nonostante tutto, non mi entusiasmava, non avevo gli ardori, lo vedevo lì e boh!
Adesso con gli animali (vedi "Gli alleati viaggiatori") c’è però una via di mezzo. Cominciano un po’ ad interessarmi. Ma non tanto quelli domestici, ma quelli selvaggi, feroci. Lì, secondo me, c’è una concezione, che io per un po’ ho avuto ma non così forte: il passaggio tra la vita e la morte proprio come inerzia da una parte e fare dall’altra. Per quello che non mi spaventa, non rimango male, davanti a lotte che finiscono con lo strazio di un animale, perché lottano sempre per la vita e la morte. In quella poesia famosa, che conosci, delle migrazioni ne “Gli alleati viaggiatori” c’è tutta quella storia che dice: “...uccelli/ dardeggianti vi saranno stati/ non era il momento di cercarli non era il momento”. Ecco, delle cose secondarie chi se ne frega. Ci sono cose primarie nella vita, continuamente, l’importante è che ci si accorga di questo.
Barbara Pietroni: La scienza e la filosofia. Che cosa rappresentano per te?
Giancarlo Majorino: Dal punto di vista scientifico, devo dire che sento violentemente le mie carenze. Capisco di non sapere e mi affido a volte a persone che in qualche modo possono fare da mediatori sicuri. Per esempio l’astronomo Dino Proverbio, che mi ha spiegato molte cose, abbiamo discusso insieme di molte cose. Ricordo come uno degli eventi più belli della mia vita quella volta in cui lui mi ha portato su, nell'osservatorio di Carloforte in Sardegna -di cui allora era direttore- e abbiamo visto insieme Giove e i suoi satelliti in maniera fantastica. Capivo come mai quest'astronomo, quando veniva giù, ci guardava come formiche. E' impossibile seguire quelle cose lì e continuare come se nulla fosse...
In linea generale le cose che non so le sento violentemente come mancanze. Oggi, entrare in uno di quegli ambiti specializzati è impossibile. La divulgazione scientifica, come tutte le divulgazioni e come il nome orribile dice, è spesso generica e inadeguata. Io sono comunque molto affamato... In "Lotte secondarie" sta scritto: "Tornato intelligente ho fame sempre".
La filosofia. Ci sono dentro da sempre, mi ha sempre affascinato. Ancora adesso, devo dire, forse i testi che leggo di più sono quelli dei filosofi. Non tanto quelli sui filosofi, ma proprio i loro testi. C’è stato addirittura un periodo, preparavo il concorso, che me li leggevo in tedesco, pur avendo una conoscenza del tedesco molto relativa. Considero la filosofia uno dei grandi aiuti generosi, che il mondo mi dà. Oltre la battuta agli studenti che conosci: “oggi avete una fortuna schifosa: faremo Spinoza”, continuo ad interessarmi di loro e a volte riesco anche ad appropriarmi di qualche pensiero particolarmente vicino a me.
Barbara Pietroni: Si tratta sempre di pensieri che hanno a che fare con la vita reale?
Giancarlo Majorino: Sì e no. A volte loro hanno modi anche molto staccati. C’è questo primato, diciamo, logico, che se uno non è allenato può tenere distante. Se uno invece è allenato, può starci vicino.
Io ho spesso esigenze sistematiche, per cui le entrate nei libri di filosofia sono frequenti. Non faccio una grande differenza tra questi due modi di profondità, l’uno del ragionare, l'altro dell'esprimere.
Barbara Pietroni: Infatti devo dire che nelle lezioni di estetica, a cui ho assistito alla Nuova Accademia di Belle Arti, riuscivi a portare la filosofia nel concreto, nel quotidiano.
Giancarlo Majorino: L’ho sempre cercato, l’ho sempre sognato. Perché anche lì, secondo me, una delle ragioni per cui la gente continua a fare una “vitetta” invece di una “vita” è la mancanza di familiarità con queste meraviglie. Ho una poesia in “Cangiante” sul nipotino, che sapeva a memoria tutte le marche delle automobili, mano a mano che passavano. Ero diventato furibondo e ho fatto una poesia per dirgli: “Ma guarda che lì non c’è niente. Che cosa vuoi sapere? Le marche interesseranno ai fabbricanti di automobili. Chi se ne frega delle marche di automobili!”. Pure il fatto che la gente studi fino ad una certa età e poi basta, a me sembra una pazzia! Studiare è una delle cose belle della vita.
Barbara Pietroni: Beh, a proposito di studio, questa tua pratica da quasi tutta la vita di insegnamento, prima in un liceo, poi, dopo una fase di pausa, ancora in un'Accademia, dove tuttora insegni, ecco che cosa è stato e che cosa è l'insegnamento per te?
Giancarlo Majorino: E' sempre stato qualcosa che mi ha affascinato. Il fatto di aver avuto altre esperienze di lavoro, mi ha fatto capire che l'insegnamento (a differenza di tante altre attività), se fatto con impegno profondo e desideri di misurazione, è qualcosa di veramente degno, non solo per sé, potendo passare conoscenze e voglie di conoscenza, un altro mondo rispetto al vigente oberato da utilitarismo, ansie presenzialiste, finalità penose.
A me-me (oltre un ovvio narcisismo da protagonista in scena -ride), consente di addentrarmi in altri, in particolare entro quegli strani esseri o germi di chissà quale vita futura, come tutti siamo stati, tu non da molto, consentendo fantasie su ciò che pensano, fanno, sognano, e, con essi, di coloro che li hanno influenzati e li influenzano, ecc., ecc.
Inoltre fa capire che la cultura non è un baraccone per quiz, ma la coscienza non ereditaria di una generazione (Lotman, mi pare), alias la possibilità più certa per liberare le proprie facoltà e arricchirsi reale, pervenendo, più che l'agitazione muscolare, a intensificare la propria vita.
L'insegnamento è bello anche perché mi ha sempre consentito di studiare e studiare vuol dire conoscere di più, vuol dire non essere in balìa. Non so se sembra poco... a me sembra tantissimo.
Barbara Pietroni: Qual è il tuo rapporto con le donne? Mi sembra che una volta tu abbia detto: “Le donne avrebbero un grande privilegio sugli uomini, che usano poco o malamente (anche perché il potere finora è maschile): la loro unità fisico-spirituale”
Giancarlo Majorino: Sì, le donne sono una gioia mondiale. Ritengo anche, oltre ciò così in generale, diciamo, che abbiano in sé qualcosa che gli uomini non hanno e che sarebbe decisivo per tutti. L'unità della persona, appunto. Mi è capitato mille volte, quando sono accanto ad una donna, ad una ragazza, di notare come da parte sua ci possa essere sia un interesse per un’argomentazione, un discorso, un’idea, per queste cose teoriche, diciamo, e nello stesso tempo, a volte proprio nello stesso tempo, ci sia uno sguardo di fisicità e per la fisicità. Io ho un po’ imparato da loro questo, e in qualche maniera, spesso non sempre, molto meno di loro, mi capita di guardare la bocca di una persona, non solo per quello che dice, ma anche per come è fatta. Ecco, questa unificazione, a mio giudizio, sanerebbe una serie di dualismi sbagliati. Io non credo né all’anima-e-corpo, né allo spirito-e-materia. Penso che noi siamo un’unità di una zona più all’interno e di una zona più all’esterno.
E allora le donne hanno questo grande potere, solo che il potere vero l’abbiamo noi maschi ("maschi caschi") e allora le cose diventano gravi, perché non solo, avendo i maschi il potere, se non glielo strappano è difficilissimo che lo mollino (come tutti i poteri), ma anche perché le donne, purtroppo, sono spesso angariate e dipendenti da condizionamenti forti. Hanno, per esempio, la fissazione della famiglia e dei figli, della coppia e dell’amore duale come il centro di tutto, una fissazione che può indebolire la grande voglia di un amore generale oltre che per qualcuno. Le donne mettono sempre prima l’amore a due oppure la famiglia o i figli. E' una lunga tradizione, ma dovrebbe essere sottoposta a critica spregiudicata. Alcune lo fanno, integralmente o a metà: con travagli immensi, contro gli uomini, contro la maggioranza delle donne, contro una parte di sé. Oppure, che è ancora peggio, fanno le scimmie dell’uomo: donne manager, donne Rambo, neomodi già bacati che fanno pena. Un’imitazione smaccata dell’uomo, insomma.
Barbara Pietroni: Io sono fondamentalmente d’accordo con te. Devo dire però che, secondo me, una forte componente di questo attaccamento, se vuoi tradizionale e conformista, all’amore dualistico, alla famiglia, ecc. ha radici anche biologiche, legate alla natura. Cioè per noi staccarci da questo, oltre che fare una battaglia contro i maschi, le tradizioni e le convenzioni, vuol dire anche staccarci da fattori biologici.
Giancarlo Majorino: Può darsi che ci sia davvero questo, perché in effetti quella femminile e quella maschile sono strutture un po’ simili, ma anche molto dissimili.
Barbara Pietroni Quello che voglio dire è un po’ questo (ma prendilo con la dovuta cautela, perché è probabile che “me la conti un po’ su”, per usare una tua espressione). Io cerco sempre di guardare me e gli altri da diversi punti di vista: un uomo-avventuriero in cerca della verità filosofica, un uomo-macchina che produce continuamente sogni, un uomo-animale che si comporta secondo i codici naturali della sua specie. Naturalmente ogni punto di vista è limitativo, ma credo che serva per mettere insieme un’icona più completa di chi siamo. Il maschio, dunque, è quello che cerca di portare avanti il suo patrimonio genetico, per cui è costantemente in cerca di compagne sempre diverse; la donna invece cerca di preservare e difendere la sua progenie.
Giancarlo Majorino: Sì, questo credo che sia vero. Però non è che la figura dell’uomo debba sempre essere solo quella. Cioè l’amore generale non vuol sempre e solo dire tante coppie. Può voler dire una coppia e amore per tutti.
Però hai ragione anche tu a dire che c’è proprio una differenza fisica. Il fatto stesso di ricevere e non penetrare proprio a livello sessuale ha riferimenti, conseguenze di vario tipo. La maggior cautela delle donne, certi atteggiamenti... si vede subito nei bambini piccoli qual è il bambino e qual è la bambina, perché bene o male nella femmina sono in atto ricezione e grazia; nel maschio, c’è un prorompere esterno. Questi elementi, probabilmente, non dico che siano innati o forse sì, ma comunque si notano immediatamente.
Barbara Pietroni: Ecco, torniamo al discorso che stavi facendo sull’unità di mente e corpo, spirito e materia. So che, a questo riguardo, hai da raccontarmi un episodio del ’68...
Giancarlo Majorino: Ah, sì. Nel ’68... io poi sono entrato a scuola che già avevo 40 anni, quindi abbastanza tardi, come dire, già tutto "formato". Soprattutto per aver partecipato a quella sinistra spregiudicata, che aveva nemici sia a sinistra, che a destra.
(Apro una parentesi per dire che io non sono mai stato iscritto a nessun partito, a nessuna zona specifica. Ho sempre pensato alla politica come a qualcosa legato all’etica, alla morale).
Ecco, quando scoppia il ’68, ero professore di filosofia e storia in un liceo e naturalmente ho prestato subito attenzione a questi eventi, perché avevano in sé due o tre momenti di grande rilievo, una specie di preveggenza sul fatto che le cose, il denaro, il potere, avrebbero da lì in avanti avuto sempre più potere. Scoppia allora il ’68, ci sono questi studenti che prendono in mano tutto e io ero affascinato da certe cose: prima di tutto, come dicevo prima, da questo “no” alla cultura di allora e poi in un secondo tempo da qualcosa che stava ancora più sotto, una specie di richiamo ad avere vite più felici, richiamo che derivava in gran parte dallo stare insieme -io ho preso questo dal’68- All’inizio gli studenti, soprattutto quelli che mi seguivano molto – dall'altra parte c’erano anche quelli che facevano finta di niente e stavano per conto loro, la famosa maggioranza silenziosa, che adesso trionfa, sostenuta dallo stradominio dell'unica superpotenza, con Berlusconi – ma anche i più avvertiti, i più lucidi mi chiedevano di entrare subito in lotta con loro. E dicevo che sarei voluto entrare non solo perché mi piacevano delle idee, ma anche con tutto il corpo. Tutto il corpo voleva dire l’abitudine al piacere, voleva dire mettere sé in una posizione forte, aperta. Poi, sono arrivato con tutto il corpo, anche da loro, però facendo una specie di combinazione con quello che avevo già pensato e fatto in precedenza, diciamo così.
Barbara Pietroni: Ecco, adesso arriva il turno dei tuoi parenti. Parlamene un po’.
Giancarlo Majorino: I parenti, beh sì, ci sono stati mio padre, mia madre, mio fratello, di cui ho già parlato. Vari amici, gli altri, gli zii, le zie, i nonni sono stati un po’ meno importanti.
Ah, ti parlo di mio padre e di mia madre, di quando si sono incontrati, di quelle vicende, diciamo, preparatorie in cui ci si conosce ancora poco, ci si studia, ecc. Ti posso dire due o tre aneddoti che sono divertenti. Uno, intanto che mio padre, quando ha conosciuto mia madre, le ha detto che si chiamava Miorino, che secondo me è una grande finezza, perché quando lei se ne è accorta lui ha detto: “Hai capito male”. In realtà era una cautela se avesse voluto andarsene (ride). Ma ce n’è un’altra ancora più bella di cautela, sempre di questo tipo. Tanto per dire che anche mio padre, benché più tranquillo... fisicamente assomigliava ad Umberto Di, quello di De’ Sica, un tipo...
Barbara Pietroni: Era ironico?
Giancarlo Majorino: Era ironico anche lui, solo che di fronte a quel ciclone di mia madre, era continuamente sulla difensiva (ride).
Beh, mia madre ai parenti, la nonna, sua madre, le sorelle, raccontava di questo ingegnere. Allora una volta loro dicono: “Ma faccelo almeno vedere!”, perché lei continuava a raccontare di lui ed era poi una che, si sapeva, raccontava un sacco di balle. Dice: “Va bene, ve lo faccio vedere!”. Abitavano in una via qui a Milano, via Ceradini, che aveva un grande giardino e una vasta siepe che lo ricopriva in parte. “Noi ci mettiamo qua e tu gli dici di passare qui davanti, gli dai appuntamento là in fondo” “D’accordo!”. Allora glielo dice, lui passa, tutti valutano, guardano. Quando poi lei va lì e dice: “Avete visto, eh?”, loro fanno: “Sì, ma non ci avevi detto che zoppicava”. Perché lui (ride) aveva fatto finta di essere zoppo, sempre perché non era sicuro di rimanerci insieme... che è una follia pura e semplice! (ride) Insomma, giocavano continuamente.
Te ne racconto un’altra, questa volta di mia madre. Erano già sposati e lei gli aveva detto: “Ma a me gli uomini guardano tutti”. Mia madre non era bella, per cui mio padre aveva detto: “Che cosa vuoi che ti guardino?” “Beh, mettiti due o tre metri indietro. Vedrai se non mi guardano”. E lei davanti e tutti che la guardavano. Ma sai perché? perché lei muoveva la lingua da una parte all'altra come fosse una squilibrata! Capisci, che banda?
Barbara Pietroni: ...tuo cugino, invece?
Giancarlo Majorino: Ah, sì, un personaggio abbastanza importante è questo mio cugino. E anche suo padre era importante. C’era un’ala della famiglia, che era la più ricca, erano gli unici ricchi della famiglia. Il padre oltre che essere ricco era bellissimo, una specie di Gary Cooper...
Barbara Pietroni: Il padre di tuo cugino come era imparentato con voi?
Giancarlo Majorino: Era il fratello di mia madre. Era molto importante, perché era il perno danaroso, sai come succede nelle famiglie, guadagnava molto ed era anche bello in una famiglia prevalentemente di donne. Ci trovavamo tutti i Natali a fare come dei resoconti e io lo attaccavo un po’ sempre, perché mi dava fastidio questa sua duplicità dominante.
Con il figlio, invece, mio cugino che chiamavo Acheo Pireo Stringhileo (ride), non so del tutto perché... molto alto, distinto, con il quale sono rimasto amico, ogni tanto ci vediamo. E’ sempre stato per me un deuteragonista abbastanza netto: ha fatto questa gran carriera sulla scia del padre, una buona carriera, adesso, che è in pensione, s'è rimesso a fare lo studente, sta prendendo la terza laurea. Ci siamo influenzati... anche se io di soldi non ne ho mai fatti. A me di lui piaceva (e piace ancora) il fatto che per essere un manager è un uomo estremamente riflessivo e anche etico, morale. Siamo stati insieme a scuola, lui era più bravo, ci sono state sempre un po’ di rivalità, probabilmente mezze nascoste.
Barbara Pietroni: C’era un lavoro che tu da piccolo dicevi di voler fare?
Giancarlo Majorino: Sì, Napoleone (ride). Da ragazzino mi hanno rovinato. I miei parenti mi avevano fatto in regalo un costume da Napoleone. E mi ricordo come mi ero sentito felice, vestito da Napoleone, avrò avuto dieci anni. Mi ricordo anche che ero un po’ deluso per il cappello. Un mio zio infatti aveva detto: “Ma che cosa gli mettiamo per il cappello?”, allora era andato a prendere un pennello da barba, lo aveva modificato e lo aveva messo lì sul berretto. Poi avevo una grande asta con una bandiera, che in questo momento non mi ricordo se fosse francese o italiana. E so che avevo girato per ore vestito da Napoleone! Non so se è una cosa di cui lodarsi, perché c’è un po’ un incoraggiamento alla megalomania...
Barbara Pietroni: Qual è la tua opinione sui riconoscimenti che hai ricevuto?
Giancarlo Majorino: Sono sempre stati un po’ strani, devo dire, perché ho sempre avuto zone molto stimanti e zone che addirittura mi passano sotto silenzio, succede ancora adesso. Per cui ci sono squilibri forti nella valutazione. Gli squilibri sono anche dovuti al fatto che i miei libri sono spesso integralmente diversi uno dall'altro e così, per esempio, chi abbia amato "La solitudine e gli altri" fatica parecchio anche solo ad apprezzare "Tetrallegro" e così via. Facendo un po' lo spaccone, devo dire che con alcuni critici sussiegosi mi viene naturale dire "poveretto" di fronte ai loro sbalestramenti di giudizio.
Barbara Pietroni: e invece quelli che apprezzano tutto... sono proprio fortunati (ridiamo).
Barbara Pietroni: Cambiando discorso, ma non tanto, devo dire che una cosa che ho sempre ammirato in te e che mi meraviglia ogni volta che salta fuori è l’attenzione che nutri per i giovani.
Giancarlo Majorino: Beh, questo lo sai anche tu...
Barbara Pietroni: Sì, lo so, lo so che tu sei uno dei pochissimi poeti, se non quasi l’unico, che dà molta importanza ai giovani poeti, organizzando frequentemente anche degli incontri.
Giancarlo Majorino: Sì, è vero; mi interessa conoscere la poesia che si sta facendo. A dire la verità vorrei nascessero poeti bravi, capaci. A Milano, che conosco io, ce n’era uno, il Porta, che faceva la stessa cosa, con grandi aperture. In linea generale sono anche molto curioso, ma lo sono sempre in tutto quello che faccio. Quindi i giovani, sempre in questa loro mistura di realizzato e non, sono come dei germi, non si capisce che cosa ne viene fuori, vivono ancora in un clima più di possibilità che di realtà. Poi ho anche la pratica della scuola. Mi sono sempre molto interessato e ho sempre cercato, nei limiti delle mie possibilità, di aiutarli un po’... forse anche perché non ho figli, chi lo sa? Ci possono essere tante ragioni.
Barbara Pietroni: Oltre a quello giovanile, c'è un panorama più allargato, quello degli scriventi versi...
Giancarlo Majorino: Sì, ho la portiera che crede che abbia un’azienda per tutta la posta che ricevo, per lo più di poeti, quindi sia testi pubblicati, sia testi non pubblicati. Ecco questa enorme moltitudine di persone che scrivono (ma si potrebbe anche dire: che pitturano, che fanno attività estetica o pressoché estetica) è enormemente cresciuta. Questo implica che purtroppo non si riesce a seguirli. Se uno appena appena è coscienzioso rimane male, ma... Io trent’anni fa, ma allora ricevevo poca posta, rispondevo proprio a tutti, perché mi sembrava che fosse un tesoro intimo di tale portata per ciascuno che non si potesse trascurarlo senza offendere. Adesso è diventato assolutamente impossibile. Non si riesce a leggere e a rispondere a persone che non siano o quelle che già stimi o qualcuno che arriva proprio appoggiato a fondo da tali pareri, che tu almeno un’occhiata gliela dai. Per cui questo crea vari tipi di discrepanze. Può succedere che una persona molto geniale, un poeta, un musicista, non trovi ascolto. Pubblicare per esempio in luoghi dove sai che un po’ ti devono leggere, nelle case editrici più importanti è diventato difficilissimo. Quindi tutte queste persone, che poi non sono solo giovani, sono persone di 40-50-60 anni, diventano un'enorme massa, qui si può usare davvero il termine “massa”, ma non in senso denigratorio. Quindi spesso si arrangiano tra loro, creando piccole riviste, piccole case editrici, ma effettivamente esiste una strozzatura.
Ci si potrebbe domandare come mai esista questa enorme, crescente folla di persone che scrivono, che hanno a che fare con le attività di tipo artistico. Io credo che si possa dare una risposta sia benevola, sia malevola. La risposta benevola è che, secondo me, ci si rende conto che il mondo dell’arte è un mondo splendente, magico. Non solo, ma ci sono domande inespresse, di tipo più generale, di mutamento, di una vita più felice, di una vita più intensa, che in qualche modo le si collega a questo. Quella più malevola è che in realtà, non potendo fare azioni vere di mutamento e vite davvero felici, ci si accontenti a titolo di surrogazione di queste cose. Poi ci saranno anche voglie di fruire di benefici o di avere rinomanza, ma insomma, sai, i giri dell’arte, quando sono davvero rigorosi, sono come sempre anticipanti, quindi non hanno mai tanta gente intorno a sé. Riconoscimenti, magari, vanno a persone che sono brave a metà e non vanno a quelli che stanno davvero cambiando le cose.
Barbara Pietroni: Che cosa diresti ad un giovane aspirante poeta?
Giancarlo Majorino: Ai giovani poeti dico sempre una cosa , che sembra solo una battuta, ma è in realtà una cosa più seria, che i poeti devono fin dall’inizio fare un altro lavoro per vivere. Sono un po’ gli unici, nel senso che bene o male il pittore può sempre sperare ad un certo punto di vendere le opere e così anche il musicista, lo scultore, l’architetto, ecc.
Questa battuta fa loro digrignare i denti. Ma c’è un lato positivo, dietro a quello negativo, diciamo. Alla lunga infatti uno in poesia scrive ciò che davvero sente, ciò che davvero giudica necessario. Cioè è uno dei pochi ambiti, forse privilegiato anche rispetto agli altri ambiti, in cui davvero uno ha la possibilità in assoluta libertà di esprimersi e di esprimere, non solo per sé. Questa è una cosa enorme. Quando poi uno ha fatto esperienza di vari lavori, sa la differenza che c’è tra fare un lavoro tanto per e fare un vero lavoro legato a sé, intimamente proprio, diciamo.
Barbara Pietroni: Sono discorsi che in qualche modo interferiscono con quello più generale della cultura, no?
Giancarlo Majorino: Di mortificazione della cultura. Non è solo che siamo oberati da robe idiote, da “vitette”, da stereotipi continui, la televisione, ecc., ma anche a livello più serio, chiamiamolo culturale o alto-culturale. Ci sono infatti corporazioni che alla fine diventano grette, proprio perché sono corporazioni: gli appartenenti parlano solo tra loro e quindi rimangono enormemente distanti dalla maggioranza delle persone, alla quale invece parlano i mass media, la pubblicità e tutto il resto. Questa divisione in due è letale.
Secondo me, un poeta che non si renda conto di questo è fritto, perché rimane sempre nella gergalità. E tanti fanno così, pensando che non ci siano altre possibilità. Questo è un discorso.
L’altro discorso che volevo farti è che non abbiamo idea – ogni tanto mi balenano queste cose – di che cosa sarebbe una cultura, come c’è stata in alcuni periodi, io la chiamavo per esempio la “cultura critica”, cioè una cultura che riuscisse a mettere la conoscenza al centro. E allora noi oggi non sappiamo niente. Magari in questo momento in cui noi parliamo, a livello, che ne so, di biologia – che è una cosa di cui io so pochissimo – stanno facendo cose importantissime, ma non passano, non arrivano. E così è continuamente. Chi conosce sul serio la musica contemporanea? Le persone normali conoscono solo cretini, yuppie, cantanti di Sanremo. Quindi capisci che abbassamento? La cultura libera davvero dovrebbe essere questa.
Barbara Pietroni: Politicamente come la pensi?
Giancarlo Majorino: Insofferente di ingiustizie, sono sempre stato, diciamo, "naturalmente" di sinistra. Senza però iscrivermi mai a nessun partito, anche perché in "Equilibrio in pezzi" del 1971 già alludevo a "quei partiti che ormai sono partiti/ dalla gente per sempre", un verso che sembra essere stato letto più da Berlusconi che dalle forze-debolezze della sinistra. Ho però sempre ritenuto che i grandi eventi condivisibili e le vicende quotidiane di ciascuno fossero profondamente interconnesse. Di qui, allora, lo studio continuativo dell'aspetto estetico della politica. Tra le mille autocitazioni segnalo almeno da "La solitudine e gli altri" un verso che mi aveva procurato parecchie telefonate: "la donna che lavora sotto dice/ vivo e cresco contro/ questa è pace"; sempre in quel libro: "La Guida è confusa./ Tutti sono guide."; pure l'ultima raccolta "Gli alleati viaggiatori" chiama in più punti le vive questioni che stiamo indicando: vedi per esempio i primi quattro versi di un "interno amoroso": "e, e le piccole marce/ del tuo respiro nella notte di casa/ e i grandi gruppi che lottano insieme/ grossi animali allo stremo allo stremo".
Però a seguito del '68 mi ero anche occupato, sempre sul piano del pensiero e della scrittura, dei modi che avrebbero potuto adottare artisti ed intellettuali vogliosi di un mutamento tanto generale, quanto dei propri rispettivi specifici. E qui una questione di fondo, che mi ha sempre appassionato e che ha una sua parte di rilievo persino nel poema, riferentesi al ceto medio. Lo consideravo (come si può vedere dai vari scritti, non solo poetici, ma pure critici) una zona sociale-esistenziale indispensabile per modificazioni davvero consistenti di vita reale, di idee, di programmazioni anche politiche.