Nuova collaborazione Casa della poesia e il Fatto Quotidiano
04/04/2011

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Nazim Hikmet Turchia Turco Nacque a Salonicco, all'epoca parte dell'Impero Ottomano, attualmente in Grecia, da una famiglia aristocratica turca di origini multietniche.
Il padre Nazim Bey era un diplomatico figlio di Mehmed Nazım Pasha, un console turco di origini adighè che fu anche autore di poesie e brevi racconti, e di Celile Hanım, nobildonna turca di remote origini tedesche. La madre Aisha, invece, era una pittrice appassionata di poesia francese e specialmente di Lamartine e Baudelaire, nipote di Mustafa Celaleddin Pasha, un politico polacco naturalizzato turco che nacque con il nome di Konstantin Polkozic-Borzecki ma che in seguito alla sua conversione alla religione islamica cambiò nel attuale nome. La prima pubblicazione di Hikmet avvenne a diciassette anni su una rivista. Il suo punto di riferimento letterario era il suo insegnante di letteratura e poesia, Yahya Kemal, e altri poeti turchi come Tevfik Fikret e Mehmed Emin.
Durante la guerra d'indipendenza lavorò come insegnante a Bolu. Studiò poi sociologia presso l'università di Mosca (1921-1928) dove scoprì i testi di Marx e della rivoluzione sovietica. Conobbe Lenin, Esenin e Majakovskij, che ebbe su di lui un'importante influenza.
Dopo il suo ritorno clandestino in Turchia nel 1928, Hikmet scrisse articoli, sceneggiature teatrali ed altri scritti. Fu condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare ma amnistiato nel 1935. Nel 1938, fu condannato a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività anti-naziste e anti-franchiste, scontandone 13 in Anatolia, nel corso dei quali venne colpito da un primo infarto. Fu l'intervento di una commissione internazionale composta tra gli altri da Tristan Tzara, Pablo Picasso, Paul Robeson e Jean-Paul Sartre a favorirne la scarcerazione nel 1950.
Si sposò con Münevver Andaç, traduttrice in lingua francese e in lingua polacca a cui dedicò diverse poesie. Nel 1951, a causa delle costanti pressioni, fu costretto a ritornare a Mosca ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo ed egli trascorse il suo esilio viaggiando in tutta Europa. Perse così la cittadinanza turca e divenne polacco. Nel 1960 si innamorò della giovane Vera Tuljakova e la sposò.
Morì il 3 giugno 1963 in seguito ad una crisi cardiaca, uscendo dalla porta della sua casa al numero 6 della via Pesciànaya a Mosca. È ricordato principalmente per il suo capolavoro, la raccolta "Poesie d'amore", che testimonia anche il suo grande impegno sociale.
Casa della poesia si è occupata più volte di Hikmet e della sua poesia, in diverse manifestazioni e in seminari di studio.
OPERE
Poesie
Yeni şiirler
Son şiirleri
İlk şiirler
835 satır
Benerci kendini niçin öldürdü?
Kuvâyi Milliye
Yatar Bursa Kalesinde
Memleketimden insan manzaraları
Poemi
Taranta-Babu'ya Mektuplar (1935)
Şeyh Bedrettin Destanına Zeyl (1935)
Kurtuluş Savaşı Destanı (1965)
Memleketimden İnsan Manzaraları (1967)
Drammi teatrali
Kafatası (1932)
Unutulan Adam (1935)
Ferhad ile Şirin (1965)
Lüküs Hayat (1966)
Romanzi
Yaşamak Güzel Şey be Kardeşim (1967)
A Mosca, al numero sei della via Pesciànaya, il tre giugno del 1963, verso le nove del mattino, morì Nazim Hikmet. Lì per lì non se ne accorse nessuno. Era già morto da mezz’ora quando lo trovarono accasciato accanto alla porta che dà sul pianerottolo, appoggiato allo stipite, in un atteggiamento quasi naturale. La porta era socchiusa. Forse stava solo uscendo. per prendere la posta nella cassetta dell’atrio, o per fare due passi al sole. Il viso sembrava tranquillo. L’infarto era stato folgorante, e il cuore era già stanco. Il primo infarto l’aveva colpito vent’anni prima, nel carcere di Bursa, in Anatolia, dove passò tredici anni – oltre a diversi altri anni in altri carceri. Gli dispiaceva morire. Ma siccome morire è indispensabile, si augurava una morte come questa, rapida e decisa.
Fu composto nella bara, con molti fiori e molti onori. Rimase così col viso scoperto e col suo abito migliore, secondo la costumanza russa, fino a quando non fu calato nella fossa. Il suo unico figlio Mehmet arrivò da Varsavia per vederlo, insieme alla madre Munevvér, che in turco vuol dire «la saggia». Mehmet, nei suoi dodici anni di vita, aveva visto pochissimo questo padre favoloso, cui somiglia molto: grande, con gli occhi celesti e i capelli di un biondo un po’ rossiccio. Quando lo vide, disteso nella bara, con le mani molto belle disposte ordinatamente sulla giacca ben stirata, ebbe una grande scossa e si sentì male. Tirò il braccio della madre e si lamentò che gli girava la testa e stava per vomitare. La madre lo afferrò per la spalla e gli disse che non poteva né vomitare né cadere né andarsene; e nemmeno fare smorfie. Così Mehmet stette davanti al padre morto per ore e ore, composto e senza piangere.
Quasi quarant’anni prima, il ventidue gennaio 1924, Hikmet aveva montato la guardia accanto al volto scoperto di Lenin dentro la bara disadorna, immobile e turbatissimo come Mehmet. Lenin era stato per lui il padre grande e favoloso, assai più reale del pascià dal quale era nato, in un sontuoso palazzo di Salonicco, ai tempi dell’impero ottomano.
Hikmet aveva sessant’anni e li portava assai bene, salvo la malattia di cuore, che non appariva; anzi gli dava quel colore fresco e rosato che hanno spesso i cardiopatici. Era un uomo bello e amabile, che si muoveva con grazia e vivacità, e parlava con gli altri nel modo più estroso e diretto. Era un grande poeta e cun combattente assai valoroso, e piaceva alle donne. Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile candore, una capacità di fiducia, di meraviglia e di rispetto per l’umanità e verso le cose. Non vi era in lui ombra di cinismo o di acidità; ma solo, qualche volta, di egoismo e di leggerezza. Erra appassionatamente legato alla sua terra turca, ma non meno per sua scelta che per destino. La mescolanza di razze, di culture e di esperienze diversissime ne avevano fatto un essere ricco e originale, levigato dalle discipline ma sdegnoso di servire. Non si piegava ai compromessi, nemmeno a quelli che in generale, con sottile opportunismo, definiamo necessari. Questo prigioniero minacciato per anni d’impiccagione, questo poeta che non ha mai trovato un editore nel suo paese, questo malato che poteva morire da un momento all’altro, ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata.
Che sia morto, non ha una grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità o infelicità e il battere faticoso del cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo e a ritrovarlo. Per Mehmet soltanto la cosa sarà diversa. È difficile avere un padre, e non basta leggerne le poesie.
Joyce Lussu