La perla d’Oriente, il giardino dell’anima, lo specchio del mondo:
la mia creatura ha nomi infiniti
frutto vivente di infiniti sguardi.
A cavallo, radendo le stoppie,
dell’arida Scizia, sollevando polvere
io la sognavo travolto nel galoppo,
il centro della Via della Seta, la sosta,
il luogo dove, da ovunque convergono
mercanti, carovanieri, ambasciatori
o uomini inseguenti qualcosa di cui persero
memoria e nome nel bianco del deserto,
là, oltre i miei stessi nugoli di polvere,
oltre la schiuma delle froge del cavallo,
il Centro dell’Universo, la quiete, il sogno in corpore.
Per questo quando ebbi in pugno il mondo
lì io condussi alla riva del fiume
che porta oro sulle sue onde crestate
schiavi selezionati, catturati in Persia,
in Siria, in Anatolia, in India,
storici, teologi, architetti,
pittori, tessitori di seta, scalpellini
e fabbri, e falegnami e intarsiatori
a edificare il centro del mondo,
la città delle ombre leggendarie,
le sei strade e i sei grandi cancelli,
le piazze spalancate, le fontane
e le moschee e i minareti e i mausolei
e i quattro piani del Palazzo Azzurro
di Tamerlano, e i giardini e le pareti d’oro
e i giochi di luce nella seta delle tende,
perché tutto questo potesse incantare
chi in quel prodigio giungesse nel viaggio,
piagato dalla sabbia e impazzito di sete,
e strascicando sulle sue gambe spezzate
quando i cavalli erano morti di stenti:
a tutti quei volti ignoti di pellegrini e mercanti
sognai di donare la visione e l’incanto
capaci di cancellare per un istante purissimo
quanto sa Tamerlano, quanto apprese
al galoppo, tra dune e sterpi, da piccolo:
che dietro a noi resta soltanto polvere,
e prima che appaia il prossimo colle
già si è posata al suolo alle tue spalle
come cipria di Giava sul volto di un morto.
da: "La stoffa dell’ombra e delle cose", Mondadori, 2007